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Migranti, numeri e limiti della missione Sophia

31 Luglio 2017

Centodieci trafficanti arrestati, 470 barconi distrutti e 40 mila persone salvate. L’operazione Ue è stata rinnovata a fine luglio. Ma per il parlamento inglese è un flop. «L’ingaggio in mare? Controproducente».

Centodieci trafficanti di uomini arrestati, 470 barconi distrutti e oltre 40 mila persone salvate. Sono i numeri della missione Sophia alla scadenza del suo secondo anno di attività. Entrata nella fase operativa a partire da ottobre 2015, la missione è stata rinnovata per la seconda volta il 25 luglio, a due giorni dalla scadenza. Ora il suo mandato dura fino alla fine del 2018. Oggi conta 25 Paesi aderenti, una flotta rafforzata di sei nuovi assetti navali e altrettanti in cielo. L’ultimo anno Sophia è costata all’Unione europea e agli Stati aderenti un totale di 6,7 milioni di euro. Secondo il parlamento inglese, si tratta di un fallimento senza appello. Per due volte la Commissione della Camera dei Lord incaricata di indagare sull’operazione della Marina europea è giunta a questa conclusione, a metà luglio e a maggio 2016. In particolare per quanto riguarda il punto uno della missione: arrestare i boss del traffico di uomini e bloccare il business criminale.

IL CASO MERED. Edward Hobart, inviato speciale del Foreign Office inglese sull’immigrazione, si esprime così alla camera dei Lord: «Le persone arrestate erano per lo più appartenenti agli ultimi anelli delle organizzazioni dei trafficanti». A parte un’eccezione, un trafficante eritreo: «Pensiamo almeno di avere un leader». Hobart non ha fatto nomi, ma il sospetto è che si stia parlando di Yehdego Medhane Mered, arrestato il 6 giugno 2016 per altro dalla britannica National Crime Agency e successivamente estradato in Italia, visto che le indagini su di lui, cominciate con l’attività di intelligence di Sophia, sono poi proseguite sotto la regia della Procura di Palermo. Solo che l’uomo arrestato è quello sbagliato: lo dicono i principali testimoni del processo, lo dicono i familiari, lo dicono i documenti trasmessi dall’ambasciata eritrea all’Italia. E lo dice lo stesso Mered, intervistato dal giornalista del New Yorker Ben Taub. Il reporter è riuscito a parlare per tre ore con il vero Generale, come lo chiamavano in Eritrea.

793 PERSONE IN CARCERE. Quel giorno di giugno di un anno fa, rivela il New Yorker, Mered era in carcere negli Emirati arabi. Non poteva essere a Khartoum, dove ha fatto irruzione l’Nca per arrestare l’altro Mered, colpevole solo di omonimia, ma sei anni più giovane e di professione artigiano. Se questo è il boss arrestato, allora davvero le attività di contrasto ai boss del traffico di uomini sono molto indietro. Come spiega a Refugees Deeply Fausto Melluso dell’Arci Porco Rosso, un punto di ritrovo storico dei migranti che arrivano in Sicilia, ci sono almeno 20 ragazzi che sono passati da lì finiti in manette e poi rilasciati. Erano stati arrestati solo perché alla guida del gommone o perché indicati da altre persone. Gente che rischia di rimanere in carcere solo se non trova un avvocato competente a difenderli. In totale, in carcere con l’accusa di traffico internazionale di uomini ci sono, dal 2015, 793 persone, secondo l’ultima relazione del Viminale. Probabile che in molti si ritrovino nella stessa condizione dei 20 ragazzi passati da Porco Rosso: i processi sono molto difficili e spesso l’essere alla guida del gommone non ha alcun significato sul piano del traffico degli esseri umani.

Finora, una delle sentenze più significative per associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina risale all’8 febbraio 2016: la prima in assoluto. L’inchiesta appartiene al filone di Glauco, l’operazione cominciata a seguito dell’inchiesta sul naufragio del 3 ottobre 2013 in cui a largo di Lampedusa persero la vita in 366. La sentenza è una condanna a dai due ai sei anni per sei scafisti eritrei accusati di essere i capi della banda. La condanna più pesante comminata finora – 8 anni e mezzo di carcere e 19 milioni di euro di danni da pagare – è stata pronunciata contro un ragazzo che stava guidando il barcone. Si tratta del tunisino di 25 anni Makki Hanshasfar, indicato da altri presenti come lo scafista alla guida. Sufficiente? Non secondo il dipartimento di Stato americano – altra voce critica nei confronti degli sforzi italiani – che nel suo rapporto sulla tratta del 2017 enumera i risultati della lotta ai trafficanti di esseri umani: nessun “incriminato” (condanna in primo grado) nel 2016, 17 nel 2015 e 16 nel 2014. Anche i processi sono valutati insufficienti: 102 cominciati nel 2016, 65 nel 2015 e 44 nel 2014. Le condanne delle corti d’appello negli ultimi tre anni sono state in totale 45 (23 nel 2016).

CRITICHE DA OLTREMANICA. I rapporti del parlamento inglese criticano in più la scelta di distruggere le navi, uno dei mandati che secondo la missione Sophia avrebbe dovuto contribuire a ridurre i flussi. Infatti, secondo la commissione d’inchiesta dei Lord, questo approccio avrebbe spinto i trafficanti ad optare per imbarcazioni precarie. Non è un caso secondo gli inglesi che la maggior parte dei natanti ormai sia composta da gommoni di bassa qualità, di fabbricazione spesso cinese, con oltre 100 persone a bordo. Ormai sono il 70% delle imbarcazioni che viaggiano verso l’Italia. Anche questo tipo di imbarcazioni contribuisce al bilancio dei morti nel Mediterraneo, che secondo l’Oim sono già a quota 2.377 (il 2016 si è chiuso con 4.733). L’operazione Sophia «ha cambiato il modello di business» dei trafficanti «ma non ne ha ridotto il numero». L’esperto dell’Istituto Statecraft Joseph Walker-Cousins è ancora più critico: «L’ingaggio in mare, senza andare a terra, alimenta solo i traffici».

SERRAJ FA MURO. Anche per questo l’Italia sta cercando di spingere per un piano che porti l’esercito italiano anche a terra. Il ministro dell’Interno Marco Minniti nel corso dell’informativa del 5 luglio al parlamento aveva detto di voler realizzare sul suolo libico un centro di coordinamento dei salvataggi. Sarà anche il momento in cui tutte le missione europee potranno ritirare. Ma serve entrare in Libia. E Fayez al Serraj ancora non vuole truppe straniere in casa, riporta l’agenzia di stampa Nova: «Il premier del governo di accordo nazionale libico ha smentito di aver permesso l’ingresso di unità navali militari italiane “con soldati e aerei da combattimento” nelle acque territoriali libiche».