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Lotta alla radicalizzazione: molto da fare in Italia

6 Luglio 2017

Parliamo di radicalizzazione e di attacchi jihadisti in Occidente con Francesco Marone, analista dell’ISPI

«Ciò che sta per arrivare sarà ancora più duro e peggiore per gli adoratori della croce e i loro sostenitori». Parole dello Stato Islamico in occasione della rivendicazione dell’attentato di Manchester del Maggio scorso. L’IS sta sì perdendo territorio in Medioriente, ma la sua minaccia non è affatto svanita. Anzi, alcuni parlano di riacutizzazione del fenomeno. Così si scrive nel recente report dell’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale)‘Jihadista della porta accanto – Radicalizzazione e attacchi jihadisti in Occidente’. Negli ultimi anni l’Occidente è stato ripetutamente vittima di attentati rivendicati dal radicalismo jihadista.

Lo studio dell’ISPI ha preso in esame le caratteristiche degli attacchi in Occidente tra il 2014 e il 2017. Ciò che ne è scaturito è molto interessante: ad esempio, si è vista la centralità degli Stati Uniti nella lotta al terrorismo in Occidente, l’importanza del ruolo delle donne e dei criminali. Si è anche analizzata la natura del nesso tra attentatori e lo Stato Islamico stesso. Abbiamo chiesto a Francesco Marone, analista dell’ISPI e co-autore del report di parlarci del loro studio.

Quali sono i nuovi pericoli per l’Occidente?

Mi parla della classificazione degli attacchi di cui si parla nel report? Noi abbiamo distinto, ad esempio, tre categorie di attacchi con tutti i limiti che ci sono nella metodologia, per cui, ci sono quelli solamente ‘ispirati’, quelli direttamente ordinati e quelli che, invece, sono in una situazione intermedia, ovvero quelli in cui c’è qualche connessione, ma c’è anche autonomia dei soggetti. Abbiamo rilevato che due terzi di tutti gli attacchi registrati appartengono a quest’ultima categoria, perciò non sono né attacchi semplicemente ispirati in cui l’individuo agisce in maniera completamente autonoma ma non sono nemmeno attacchi direttamente ordinati dall’alto verso il basso, dallo Stato Islamico o da altre organizzazioni (tra l’altro questi ultimi sono una piccolissima minoranza). E’ interessante per noi segnalare che, rispetto a quanto sappiamo ora, due terzi degli attacchi sono attacchi in cui l’attentatore ha qualche forza di connessione con un gruppo jihadista, ma non risponde come subordinato a un ordine preciso. L’altro aspetto che abbiamo segnalato è che gli attentatori sono a maggioranza cittadini dello Stato in cui hanno colpito. Nei nostri conteggi il 73% di questi è cittadino o con cittadinanza unica o con doppia cittadinanza dello stesso Paese in cui ha colpito. La minaccia, cioè, come già si sapeva, non viene dall’esterno ma nasce dalle società stesse che vengono colpite. Questo ovviamente pone tutto un tema enorme sui problemi dell’integrazione; nell’ultimo capitolo abbiamo segnalato che le condizioni generali che possono essere di marginalizzazione, di povertà, di esclusione sociale, possono essere importanti, però non spiegano veramente la distribuzione geografica di questi attentatori, nel senso che non sono uniformi sul territorio in corrispondenza delle diverse condizioni sociali. Abbiamo segnalato anche che tra l’individuo che compie l’attacco e la condizione sociale in cui vive, c’è questo elemento fondamentale del gruppo a cui fa parte; questo, ad esempio, spiega come mai vi siano dei Paesi e delle specifiche aree in cui si condensano un numero di attentatori spropositato rispetto alla media generale.

Quali sono gli aspetti più allarmanti?

Tra gli aspetti più allarmanti, c’è il fatto che il numero degli attentati è abbastanza costante, non sembra esserci una decrescita. Abbiamo finito il rapporto nei primi di Giungo, poi, nel frattempo, hanno avuto sfogo almeno quattro attacchi, per cui c’è stata una crescita nel mese del Ramadan. E’ una minaccia che, ovviamente, ha qualche collegamento con come vanno le cose in Siria e in Iraq, però, non è un collegamento strettissimo. Cioè, il fatto che adesso lo Stato Islamico sia in difficoltà, non ha un effetto diretto rispetto al terrorismo in Occidente che in gran parte è autoctono, perciò, non proviene da quelle aree. Non si può escludere che un indebolimento militare dell’IS sia affiancato anche da una crescita di episodi terroristici in Occidente; c’è un legame ma non è un legame di perfetta corrispondenza.

Come si è riorganizzato l’IS dopo che ha perso gran parte dei territori?

Secondo la maggior parte degli esperti lo Stato Islamico è in difficoltà. Molti già azzardano la previsione che, nel giro di qualche mese o anno al massimo, scompaia e torni ad essere un’organizzazione clandestina. E’ plausibile, forse anche probabile, ma bisogna essere un po’ più cauti su questo aspetto. Il problema rimarrà, nel senso che il movimento jihadista globale ha trovato nell’Isis il grande protagonista in questi anni ed è riuscito addirittura a fare il salto dall’organizzazione terroristica al quasi Stato, può darsi che adesso faccia un salto indietro di nuovo. Però, il movimento jihadista globale ha ormai migliaia di simpatizzanti anche in Occidente, per cui lo Stato Islamico sicuramente ha avuto una funzione di catalizzatore molto importante; il numero dei foreign fighters che sono partiti per l’IS è senza precedenti. Ha funzionato da catalizzatore ma la sfida è una sfida che durerà anni, probabilmente decenni. Si dice spesso che alla questione dell’indebolimento dell’IS potrà succedere una rimessione di Al Qaeda, quindi, i protagonisti possono essere diversi ma il movimento jihadista globale durerà ancora per anni.

Secondo lei la teoria di alcuni analisti militari secondo cui l’Isis e Al Qaeda potrebbero unirsi, è reale?

Dal mio punto di vista è solo un’ipotesi, al momento ci sono significative differenze ideologiche e dottrinarie, per cui come sappiamo, c’è stato uno scontro all’interno del movimento tra questi due protagonisti. Non vedo al momento, però, grandi segnali che facciano pensare ad una fusione; c’è stata per mesi, anni una forte competizione, una forte rivalità. Non vedo indicazioni chiare né in termini di annunci né dichiarazioni che facciano pensare ad una fusione prossima, ma non si può certamente escludere. Per noi è interessante studiando l’Occidente il fatto che la maggioranza di questi attentatori non padroneggia bene le distinzioni ideologiche dottrinarie, quindi, anche la competizione che c’è in Medioriente non viene percepita da questi individui. Il caso che segnaliamo è dell’attentatore di Orlando, un individuo che ha giurato fedeltà al Califfato, che prima era interessato ad Al-Shabaab, nei social media aveva addirittura simpatizzato per Hezbollah, per cui, chiaramente, da parte della maggioranza degli attentatori c’è una certa superficialità; l’abbiamo visto chiaramente nel caso di Charlie Hebdo dopo che i due dei tre attentatori erano per Al Qaeda e il terzo era per l’IS, gruppi che si fanno anche la guerra in Medioriente ma che in Occidente non vengono distinti con grande chiarezza, anche perché gli attentatori spesso non hanno nemmeno i mezzi culturali per approfondire queste distinzioni. Sicuramente, nello scenario mediorientale è un tema molto importante. Nei processi di radicalizzazione che abbiamo visto in Occidente tende ad essere un tema marginale anche perché, per esempio, abbiamo tanti casi di individui che volevano partire per l’Iraq per unirsi ad Al Qaeda, poi sono passati all’IS semplicemente perché Al Qaeda ha dei criteri di selezione più restrittivi.

È possibile quantificare i foreign fighters che sono pronti a far ritorno?

Si ci sono delle stime, il problema è che per i foreign fighters tutti i numeri sono da maneggiare con tantissima cautela perché sono stime molto diverse da Paese a Paese, sempre approssimative. Per esempio, in Italia sono stime generose perché includono anche individui che sono semplicemente passati dall’Italia per andare in Siria e in Iraq, che non sono cittadini italiani ma spesso non sono neanche residenti in Italia da un periodo significativo. Perciò, dipende anche dai Paesi ma si parla del 20, 30% di persone che ritornano o che stanno pensando di ritornare con intenzioni diverse; troveremo quelli che tornano disillusi, quelli ancora convinti del credo jihadista ma non più interessati a passare dalle parole ai fatti, e poi ci saranno persone che, invece, ritornano con l’intenzione di supportare attacchi in Occidente oltre a quelle che tornano dal campo di battaglia ma non più nel proprio Paese. E’ un fenomeno che è già successo, anche nelle generazioni precedenti dei foreign fighters: cercano nuovi campi di battaglia, quindi, non è detto che tornino nei loro Paesi d’origine.

Il fenomeno IS ora è percepito diversamente dalla popolazione?

Sicuramente ci può essere un cambiamento degli atteggiamenti della popolazione di fronte a quella che, per una minoranza dei cittadini, è un attore interessante come lo Stato Islamico che aveva nella sua retorica anche elementi legati alle frustrazioni del mondo arabo e, quindi, poteva in qualche modo attirare persone che non avevano un credo jihadista molto approfondito. Su questo sono state fatte ricerche interessanti che hanno mostrato che una minoranza significativa degli attacchi in molti Paesi a maggioranza musulmana, aveva atteggiamenti favorevoli nei confronti dei gruppi jihadisti e dello Stato Islamico. Ricordo uno studio in proposito che ha mostrato con cautela che lo Stato Islamico, in maniera diversa da Paese a Paese e all’apice della sua forza, raccoglieva il favore di una minoranza significativa di Paesi a maggioranza musulmana. Anche se si tratta di percentuali inferiori al 20%, si tratta comunque di milioni di persone. Poi, certo, una cosa è un atteggiamento in generale favorevole, e altra cosa è passare dalle parole ai fatti. L’atteggiamento favorevole è certamente il primissimo fatto per passare dalle parole ai fatti, considerando anche che i sondaggi ovviamente tendono a sottostimare questi dati e il fatto che non si tratta di Paesi che brillano per criteri democratici di Stato e diritto e le persone magari tendono a celare le loro vere intenzioni.

Ci sono che strumenti in Italia per affrontare la lotta alla radicalizzazione?

Importante è proprio cosa fare rispetto alle persone che tornano o che possono tornare all’IS, tema che tocca da vicino anche l’Italia che è un Paese meno esposto semplicemente perché abbiamo un numero di jihadisti inferiori rispetto a quello di grandi Paesi europei. In Italia in tutti questi anni abbiamo privilegiato i vari strumenti repressivi direi soddisfacenti, nel senso che siamo l’unico grande Paese europeo che non ha avuto un attacco jihadista dopo l’11 Settembre, per cui sicuramente c’è un uso efficace e di successo degli strumenti repressivi. Però, dall’altra parte, siamo uno dei pochissimi Paesi in Europa che non ha ancora progettato e tantomeno portato a compimento dei programmi di deradicalizzazione o di contro radicalizzazione. Questo è un enorme tema che in molti Stati si discute da molti anni, nei Paesi scandinavi già dagli anni ‘90, ma in Italia siamo veramente se non all’anno zero, molto vicini ad esso, poiché non esiste un quadro nazionale. Negli ultimi mesi cominciano a presentarsi alcuni esperimenti a livello locale ma su questo siamo molto lontani anche da Paesi che tendono ad avere una tradizione più vicina alla nostra su tali temi. Da una parte, può apparire grave, però, siamo comunque fortunati perché da noi si presentano ora fenomeni che in altri Paesi si sono presentati anni fa, ma sarebbe il caso di approfittare di questo ritardo fortunato per cominciare quantomeno a ragionare su progetti di contro radicalizzazione per chi è vulnerabile o di deradicalizzazione, ovviamente qualcosa di più complicato per chi ha già iniziato un processi di radicalizzazione partendo dalle scuole. Sono tutti programmi da costruire a seconda della realtà italiana, non possono ovviamente essere affidati alle forze dell’ordine e di intelligence, ma devono chiamare in causa le scuole, le ONG, gli enti locali, gli attori della società civile, con un’attenzione alle specificità delle realtà locali.

C’è qualche progetto di legge in proposito?

C’è ancora un grande lavoro da fare in Italia. C’è una legge in Parlamento che ha l’obiettivo di fissare per lo meno le linee guida per i progetti di deradicalizzazione, è stata firmata da Stefano Dambruoso, ex magistrato che si è occupato di terrorismo e da un deputato del PD. E’ un primo progetto che fissa linee per affrontare questo tema e vediamo se passerà e se sarà approvato visto che siamo alla fine della legislatura; sarebbe poi da incrementare ma sarebbe un avvicinamento a quello che si fa negli altri Paesi europei, anche se non tutti pensano che questi programmi abbiano successo al 100%. Hanno dei costi a discapito delle risorse e delle energie e possono anche non avere risultati buoni nei singoli casi; è molto difficile poter deradicalizzare una persona, però, l’alternativa è non fare nulla. Inoltre, lo strumento repressivo può servire se c’è già stato un reato o come si fa in Italia con l’espulsione amministrativa quando non c’è neppure stato un reato e c’è pericolosità sociale, ma in quest’ultimo caso bisogna essere cittadini stranieri. Sappiamo che, anche in questo con ritardo, l’Italia si sta gradualmente avvicinando al caso degli altri Paesi europei in cui le seconde generazioni sono di cittadinanza nazionale. Un tema centrale è quello dell’instabilità della Libia all’origine della crisi dei migranti.

Secondo lei la crisi dei migranti è riconducibile a questo e al terrorismo?

Ciò che dicono gli esperti e che è stato provato è il fatto che c’è un rischio infiltrazioni terrorismo, in particolare dal Nord Africa. Le forze di sicurezza sono allertate, ci sono alcuni casi di persone che dallo status di richiedenti asilo hanno intrapreso processi di radicalizzazione, ma il rischio è relativamente ridotto. C’è un collegamento tra migrazioni e terrorismo, ma è molto debole; poi, posso esserci altri collegamenti, come il fatto che lo Stato Islamico sia presente come provincia anche in Libia e questo favorisce il caos. Sicuramente ci sono gruppi di jihadisti che approfittano del business che può essere costituito dal traffico dei migranti come fonte di approvvigionamento economico, però, nel nostro rapporto segnaliamo che il 5% degli attentatori erano rifugiati o richiedenti asilo, per cui è un numero limitato. Non me la sento di dire che non c’è nessun collegamento diretto tra migrazioni e terrorismo, anche perché, ad esempio, alcuni degli attentatori di Parigi si sono presentati e finti come richiedenti asilo, però, è un legame al momento debole, anzi ingigantito dall’opinione pubblica. L’ISPI ha fatto anche un sondaggio per verificare la corrispondenza tra ciò che abbiamo trovato nella ricerca e la percezione degli italiani. Ne sono usciti due dati interessanti: uno, che gli italiani sovrastimano in maniera molto evidente il numero dei rifugiati o richiedenti asilo o residenti illegali tra gli attentatori. Noi abbiamo segnalato il 13% di questi nel nostro conteggio, invece, la metà degli italiani pensa che siano tra il 20 e il 100%. L’altro dato sovrastimato è il numero dei morti: abbiamo notato che sono 395, mentre molti italiani pensano che siano da 500 a 5.000. Il primo tema sicuramente rientra nella paura del diverso, dei migranti, che caratterizza molti settori della popolazione, il secondo è forse anche una sopravalutazione legata all’impatto mediatico che ha questo fenomeno e che è involontariamente in sintonia con quanto vogliono i gruppi jihadisti da 200 anni a questa parte, far sopravalutare la loro forza e la loro capacità di arrecare danno. E’ interessante questo sondaggio perché segnala tra l’altro che la nostra percezione generale del fenomeno è diversa dalla realtà e sovrastima sia la minaccia in generale che il peso che i migranti possono avere.