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Espulsioni per terrorismo: tra necessità e abuso

26 Luglio 2017

Luca Masera ci spiega il funzionamento e le criticità di questo strumento di precauzione

«Le espulsioni sono strumenti preziosi di prevenzione perché colpiscono chi si radicalizza»; questo dichiarava lo scorso aprile il ministro dell’Interno Marco Minniti, alla vigilia dell’approvazione alla Camera  del decreto a tema sicurezza ed immigrazione. Un testo di legge che, tra le altre cose, voleva rendere più rapido l’excursus per espellere lo straniero residente sul nostro territorio che mostri segni di radicalizzazione, o peggio, di affiliazione con gruppi a finalità terroristica di matrice fondamentalista islamica.

Detto così il concetto sembrerebbe chiaro e lineare, ma in realtà alla domanda sui criteri con cui si sceglie il trattamento riservato ad un soggetto radicalizzato “non c’è una risposta chiara“, sostiene Luca Masera, professore di diritto penale presso l’Università di Brescia, e già autore di studi sul tema.

Da un lato abbiamo le valutazioni dell’autorità giudiziaria, che se ritiene gli elementi emersi nei confronti di uno straniero come tali da configurare un reato di associazione terroristica e/o affini, a questo punto deve avviare il procedimento penale; e con esso la possibilità, qualora sussistano gli estremi, di sottoporre il soggetto ad una misura di custodia cautelare. Fin qui nulla di diverso da quanto avviene per una qualsiasi ipotesi di reato e per qualsiasi cittadino o straniero.

Se il processo perviene ad una sentenza di condanna, dopo che il soggetto ha scontato la pena e qualora risulti ancora socialmente pericoloso, in base ad una valutazione fatta a posteriori, ecco che l’espulsione può essere stabilità in qualità di misura di sicurezza. In caso contrario, per esempio con un condannato che abbia portato a termine un percorso di reinserimento sociale, questo ovviamente non avviene.

Quando però gli estremi per una misura di custodia cautelare non sussistono, così come quando non ci sono prove sufficienti a carico dell’accusato di associazione con finalità terroristiche, ecco che “a questo punto subentra il potere del governo tramite l’autorità amministrativa”, spiega Masera, “che può decidere anche sulla base di quegli stessi elementi non considerati sufficienti in sede penale, che questi lo siano per espellere lo straniero, in quanto il soggetto rappresenta un pericolo per la sicurezza nazionale”.

L’espulsione può avvenire quindi senza che sussistano ipotesi di reato previste dal Codice Penale, sulla base dello “sganciamento tra i presupposti della responsabilità penale e quelli dell’espulsione amministrativa”.
Espulsione amministrativa che in base a questo sganciamento dei presupposti può essere disposta, dal Ministero dell’Interno, anche senza che la macchina della giustizia penale abbia iniziato a muoversi nei confronti di un sospettato.

Una misura precauzionale il cui utilizzo e l’attenzione mediatica di cui gode è giustificato dal contesto storico in cui viviamo. I numeri in questo senso sono significativi, con l’allora ministro dell’Interno Alfano che un anno fa parlava di 102 espulsioni tra il 2015 e la prima metà del 2016, una quantità elevata di persone considerate potenziali terroristi. Ma forse in questi numeri si potrebbe nascondere il sintomo di una patologia del sistema, quella discrezionalità principale nemica di ogni sistema giurisdizionale proprio di un paese democratico.

Le cronache parlano di provvedimenti di espulsione che colpiscono soggetti altamente pericolosi, considerati in procinto di compiere atti terroristici, ma anche uomini la cui accusa di affiliazione allo jihadismo da parte dell’autorità di polizia, appare quantomeno affrettata e basata su considerazioni generiche. Una forbice di comportamenti sanzionati molto ampia, dentro la quale potrebbero cadere casi di abuso di questo strumento.

“C’è sicuramente un problema dal un punto delle garanzie, in quanto la procedura che porta alle espulsioni è lasciata in gran parte alla discrezionalità ampissima dell’autorità di polizia; una discrezionalità che sostanzialmente”, secondo Masera, “non viene neanche controllata dall’autorità giudiziaria del Tar”.
L’autorità amministrativa del Tar ha infatti sempre riconosciuto che trattandosi di questioni attinenti alla sicurezza l’ordine pubblico non c’è neanche un grosso obbligo di motivazione: “se leggiamo i provvedimenti di espulsione, mentre una sentenza penale per condannare un soggetto per terrorismo deve motivare nel dettaglio quali sono gli elementi fondanti della sentenza, questi praticamente non sono motivati, se non in poche righe”.

La giustificazione di questo modus operandi viene spesso attributo alle necessità di non rivelare le fonti di informazione sul soggetto, ma in questo modo si è data all’autorità di polizia una discrezionalità quasi senza controllo. “E questo dovrebbe fare paura in un paese democratico”, continua Masera, “come il fatto che uno straniero, anche regolare che vive in Italia da anni, magari sposato/a con un italiano/a e con famiglia qui, si ritrovi ad essere espulso, con il a rischio di subire trattamenti inumani e degradanti”; perché va anche ricordata la sorte che può attendere una persona con la patente di sospetto terrorista, una volta rispedita nel suo paese d’origine. E questo magari sulla base di considerazioni generiche e dalle quali risulta difficile difendersi.

L’uso mediatico di questo strumento è palese, con la volontà di accrescere un senso di sicurezza nella popolazione, così come quello di fiducia nell’operato del Governo, sulla base di un’equazione che forse tende a dare più importanza alla quantità delle espulsioni piuttosto che alla qualità delle stesse. Intendendosi per qualità il rispetto di quelle garanzie democratiche, ed in particolare processuali, con la quale va con la quale l’efficacia di una misura, per quanto importante, va sempre coniugata. Uno strumento quindi tutt’altro che irragionevole, a patto che “sia lasciato uno spazio di controllo preventivo all’autorità giudiziaria amministrativa”.

Un’altra questione può però sorgere: è veramente la scelta migliore lasciare a piede libero, seppur non più sul proprio territorio, un soggetto altamente radicalizzato? Non si corre il rischio di un effetto “ritorno di fiamma” con un potenziale terrorista che può proseguire le proprie attività criminose dall’estero, anche (se non specialmente) contro il nostro Paese? “Una delle idee alla base delle espulsioni”, spiega Masera, “sarebbe quella di una collaborazione da parte del paese in cui l’espulso viene rispedito”; facile intuire come questo costituisca spesso una semplice speranza, a seconda del paese in questione.

Ma aldilà di questo è vero che l’espulsione “può essere uno strumento efficace mediaticamente, che però sposta per un po’ i problemi prima di vederli tornare ingigantiti”; il problema – semmai – “è capire quali possono essere le alternative, con le più probabili riconducibili allo schema delle misure di sorveglianza, che però comportano costi elevati da tenere in considerazione”.