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Elezioni in Kenya: l’etnia, un fatto sociale

13 Luglio 2017

La disgrazia dell’Africa è forse proprio questa: la politica non comprende ancora ‘l’idea di nazione’. Il focus è sempre l’identità etnica. L’analisi dell’Africa Policy Institute

Manca meno di un mese alle elezioni in Kenya e il clima di violenza e assoluta disorganizzazione non fa che aumentare le preoccupazioni per un inasprimento della situazione del Paese. Verranno eletti il presidente e il suo vice, i membri dell’Assemblea Nazionale, i governatori, i rappresentanti delle donne in provincia e i membri delle Assemblee Provinciali. Due le forze che si scontreranno: il partito Jubilee con Uhuru Kenyatta, il presidente in carica, e la National Super Alliance (NASA). Tra i primi vi sono le due etnie Kikuyu e Kalenjne, mentre nei secondi regna la presenza dell’Orange Democratic Party (ODM) e del leader Raila Odinga che riunisce le varie parti dell’opposizione al Governo attuale.

Una delle maggiori preoccupazioni riguarda proprio la questione della trasparenza: le procedure della commissione elettorale (IEBC) sono al centro del mirino. L’opposizione sta ponendo l’accento su diversi aspetti: tra questi, su uno vi è già stata una pronuncia giurisdizionale che ha affermato che tutti i risultati elettorali dovranno essere annunciati in ogni provincia o distretto e non a livello centrale, come chiedeva la IEBC. Sarà forse un valido strumento per evitare brogli?

Altre ombre provengono dal fronte delle schede elettorali. L’opposizione ha denunciato che l’azienda incaricata, la Al Ghurair Printing and Publishing Company di Dubai, è connessa alla famiglia di Kenyatta. Nell’attesa della pronuncia del tribunale, quindi, si rischia l’annullamento della gara d’appalto e lo slittamento delle elezioni. Come se non bastasse è venuto a galla che nelle liste elettorali erano iscritti almeno un milione di deceduti. Alla faccia dell’organizzazione e della trasparenza.

Un punto fermo è che le elezioni in Kenya di quest’anno avranno un impatto significativo sulla gestione stessa delle elezioni e, quindi, sui problemi legati alla questione sicurezza e all’eventuale violenza che si teme possa scaturire. Lo scrive Robert Kagiri dell’Africa Policy Institute. E’ necessario che il Governo si senta responsabile di questo e che intervenga al più presto per ridurre e frenare il rischio di tensioni sempre più preoccupanti, le stesse che, d’altronde, hanno trasformato le passate elezioni da un evento democratico ad uno scenario in cui, a farla da padrone, c’era la violenza tra partiti.

Nell’obiettivo della prevenzione di questa escalation per l’8 Agosto prossimo, l’Istituto stila una lista degli interventi su cui incentrare l’azione governativa: il sistema di gestione elettorale, il sistema stesso di Governo, la risoluzione dei problemi legati alla siccità e alla marginalizzazione, il populismo ed il conteggio dei voti.

Il caos che ha dominato le nomine delle primarie, secondo l’analista, è un chiaro segnale di quello che potrebbe presto accadere nelle prossime elezioni generali. Il clima che pervade il Kenya è un clima di forte crisi economica ed umanitaria, una crisi spesso strettamente connessa alla violenza in chiave etnica che ha seguito l’annuncio dei risultati delle presidenziali. Le cose si complicano anche perché ogni proposta di intervento esterno, di risoluzione mediata, è vista con sospetto e il ruolo degli attori internazionali, come è successo per le ultime presidenziali, finisce per essere considerato di supporto all’opposizione. A minacciare la stabilità keniana e il clima elettorale sono le frodi, le coercizioni, le intimidazioni, gli atti di vandalismo, di terrorismo e altre forme di manipolazione o di violenza già usate in precedenza durante e prima le elezioni.

Ma non si tratta solo di questo. Anche fenomeni di brigantaggio armato e furti di bestiame, insieme ai conflitti nati dalla lotta per la divisione delle risorse per la siccità che non sembra finire, soprattutto nella parte Nord del Paese. I problemi coinvolgono anche le formazioni di potere divise e competitive, la debolezza delle parti politiche che mancano di capacità organizzativa, l’emergenza delle nuove milizie etniche, il populismo crescente: questi i tanti fattori per cui si rischia un clima elettorale sempre più violento. Fortunatamente, il Kenya di oggi è più flessibile e resistente ai fattori che minano la sua stabilità rispetto al periodo delle elezioni del 2007 e mancano le dinamiche che prima fecero scontrare 41 tribù contro la dominante Kikuyu. Oggi la probabilità di un conflitto etnico e di un estremismo violento è stato ridotto ma sfortunatamente la violenza ha soltanto cambiato faccia, diventando meno centralizzata e più diffusa come risultato della mano debole del Governo.

Secondo gli esperti, il Governo dovrebbe attivarsi per garantire stabilità, pace e sicurezza, per far si che la violenza che circonda il clima elettorale sia quanto meno ridotta. Questi sarebbero i punti da tenere a mente. Innanzitutto, acquisire la capacità di dirigere adeguatamente le elezioni, anche mediante il sussidio di forze di sicurezza per rendere tutto il processo credibile e trasparente. Poi, viene la necessità di arginare quei nuovi fenomeni di istigazione etnica che portano ad una potenziale e dispersiva violenza nei confronti di chi è ritenuto ‘opposto’ alla propria affiliazione etnica supportando, quindi, i candidati presi di mira. Altro punto fondamentale è quello che riguarda la siccità e i conflitti per l’accaparramento delle risorse tra clan e parti; queste lotte spesso hanno sfondi politici poiché i politici stessi usano i furti di bestiame per finanziare i loro progetti e per arricchirsi. E’ chiaro l’effetto pericolosissimo che questi atti risaputi hanno sul clima del Paese e sulla percezione della popolazione riguardo alla politica. Non meno preoccupante il fenomeno del populismo che include discorsi di odio e incitamenti di vario tipo, fase notizie online che portano ad un’escalation di violenza e discriminazioni contro gruppi etnici e associazioni. In ultimo, si sottolinea la necessità di rendere più sicuro il processo di conteggio dei voti.

Tra tutti, spicca certamente il problema delle lotte tra etnie.

L’etnia è un fatto sociale. Lo dice lo scritto ‘New Super Tribes Shaping Kenya’s 2017 Election’ dell’Africa Policy Institute. Il problema dell’Africa è che la politica non prende in considerazione l’idea di nazione nel vero senso del termine, scrivono gli esperti. Tutto gira intorno all’identità etnica nella competizione politica con altri gruppi. Da anni le tribù principali sono Kikuyu e i Luo. Ma altri ibridi si sono formati nel corso degli anni. Le nazioni, però, dovrebbero condividere valori. Questo è ciò che lo studioso inglese John Lonsdale ha chiamato ‘political tribalism’.

A proposito di etnia, il 5 Luglio scorso è stato l’87 anniversario dalla nascita di Joseph Tom Mboya, il più celebre nazionalista keniano; 48 anni sono passati dal suo assassinio. Da un lato nazionalista, educatore, Pan-Africanista, uno dei padri fondatori del moderno Kenya, uomo dalla visione e dagli obiettivi aperti. Mboya era anche poliglotta e questo gli aveva consentito di attraversare le barriere linguistiche che tenevano da parte i tanti gruppi etnici. A 28 anni fu eletto presidente della All-African Peoples Conference, che storicamente precede l’odierna African Union. Alla celebrazione in suo onore, il presidente Kenyatta ha elogiato il suo compatriota dicendo che «l’indipendenza del Kenya sarebbe stata seriamente compromessa se non fosse stato per il coraggio e la tenacia di Tom Mboya».

Ma c’è sempre l’altra faccia della medaglia. La brutale morte di Mboya, infatti, ha intensificato l’uso strumentale dell’identità etnica per fini politici. Il periodo successivo alla sua morte ha, infatti, portato alla re-invenzione del ‘tribalismo politico’. Da morto è diventato un vero e proprio martire nella narrativa dell’esclusione etnica del gruppo Luo nel Kenya post-coloniale. Insomma, quello che è un vero e proprio problema dell’identità etnica non sembra avere fine.

Nelle elezioni del 2017 le due grandi identità decideranno i perdenti e i vincitori, scrivono gli analisti. Una è quella musulmana: si stima che 4.3 milioni di persone (11.1 %) siano musulmani keniani; sono dominanti in 10 province e presenti nelle altre aree e nelle maggiori città. L’altra categoria è quella dei giovani: rappresentano il 70% dei votanti e probabilmente saranno gli unici in grado di dominare il tribalismo.

La disgrazia dell’Africa è forse proprio questa: la politica non comprende ancora ‘l’idea di nazione’. I gruppi etnici sono il cuore del Paese e lo padroneggiano, anche dal punto di vista elettorale. Alla luce di questo, comprendere il tribalismo in Africa significa comprendere l’Africa. Questa potrebbero essere la chiave per risolvere i conflitti che affliggono il grande continente.