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Crisi Qatar: la frattura diventa voragine?

6 Luglio 2017

Dopo la risposta negativa del Qatar all’ ultimatum degli altri Paesi del Golfo e dopo il vertice del Cairo, quale direzione prenderà la crisi diplomatica?
Era il 5 giugno scorso quando quattro paesi del Golfo – Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrein – hanno deciso di interrompere le relazioni diplomatiche con il Qatar. La decisione era stata motivata dall’ accusa rivolta all’ Emirato di sostenere e proteggere «numerosi gruppi terroristici che minano a destabilizzare la regione, come i Fratelli musulmani, l’ Isis e al Qaida» e di  diffondere «tramite i suoi media la visione e i progetti di questi gruppi, le attività di gruppi appoggiati dall’Iran nella regione saudita di Qatif e in Bahrain», destabilizzando, in questo modo, l’ intera area mediorientale. Alla linea dei quattro hanno aderito finora anche Senegal, Mauritania, Maldive, Eritrea, l’esecutivo libico non riconosciuto di Al Baida e il governo yemenita del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi mentre Ciad, Gibuti, Giordania, Niger hanno solo declassato le proprie rappresentanze diplomatiche.

Il 22 giugno i quattro Stati hanno lanciato, tramite la mediazione del Kuwait, all’ Emirato retto da Tamin bin Hamad Al-Thani un ultimatum, composto da 13 richieste che, qualora fossero state accettate, avrebbero consentito la risoluzione della crisi e la normalizzazione dei rapporti.

Tra queste richieste, vi era la chiusura della tv emiratina ‘Al Jazeera‘, uno dei network più seguiti nei Paesi arabi; la rinuncia alla protezione militare della Turchia che, in virtù di un accordo siglato con il Qatar nel 2014 , può far conto su una base militare, a pochi chilometri dalla capitale, dove potrebbe inviare già un primo contingente di 5000 uomini e a questo proposito il ministro della difesa turco Fikri Isik aveva dichiarato che «se dovesse esserci una domanda del genere, significherebbe un’interferenza nei rapporti bilaterali tra due Paesi» ; l’interruzione dei rapporti con il nemico giurato dell’Arabia Saudita, ossia l’Iran, con il quale il piccolo Stato del Golfo intrattiene una relazione economica basata sul condiviso interesse del gas; il blocco di qualsiasi legame, anche di natura finanziaria, con la Fratellanza Musulmana e con le organizzazioni terroristiche, argomento, quest’ultimo, sempre confutato dall’Emiro.

Le richieste, definite dal Qatar «inaccettabili», hanno portato ad una risposta negativa all’ultimatum che era stato fissato per lunedì 3 luglio, ma è slittato di quarant’otto ore.  «Sono richieste contrarie alla sovranità del nostro Paese, che vanno contro la libertà di espressione e che impongono un sistema che va contro il Qatar. I conflitti vanno negoziati. Il Qatar  non ha problemi a discutere le richieste, ma deve essere su basi chiare e ad una condizione: la nostra sovranità deve essere intaccabile. Non temiamo rappresaglie militari al rifiuto di tali richieste» queste erano state le parole del Ministro degli Esteri qatarino, Mohammed bin Abdulrahman al Thani, durante una conferenza romana con il suo omologo italiano Angelino Alfano,  pochi giorni prima la scadenza fissata dai Paesi del Golfo.

Ieri si è svolto, al Cairo, il vertice dei ministri degli esteri di Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrein. In quest’occasione, il Ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry, in una conferenza stampa congiunta con gli altri tre partecipanti, ha dichiarato di essere «rammaricati per la risposta negativa del Qatar» all’ultimatum, ma ha ribadito che «non si può più essere tolleranti». D’altro canto, il Ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, Anwar Gargash, ha aggiunto che «l’alternativa non è l’escalation ma una separazione». L’omologo saudita, Adel al-Jubeir, ha aggiunto che «il boicottaggio economico e politico continuerà fin quando il Qatar non rinuncerà alle proprie posizioni».

Non mancano i presupposti per un’evoluzione in negativo della crisi. Certo è che, per invertirne il segno, non è possibile non tener conto della posizione americana. Donald Trump ha telefonato ieri al Presidente egiziano al Sisi, raccomandando a «tutte le parti coinvolte di negoziare in modo costruttivo per risolvere la questione». L’ambiguità degli USA appare in tutta la sua evidenza: da una parte sono primi alleati dell’Arabia Saudita, con la quale hanno, tra l’altro, firmato, in occasione del primo viaggio all’estero di Trump, un accordo per la vendita di armi; dall’altra parte, tengono molto al Qatar, dato che proprio sul territorio dell’Emirato, sorge una delle più importanti basi militari americane Centcom.  Senza dimenticare che il proposito annunciato dalle autorità qatarine di aumentare di un terzo la propria capacità produttiva di gas naturale liquefatto (lng) ostacolerebbe il progetto di Trump di fare dell’America uno dei massimi esportatori al mondo dello stesso prodotto.

Nel ruolo di mediatore, si è calata anche la Germania che, attraverso il suo Ministro degli Esteri, Sigmar Gabriel, sta tentando di ricucire i rapporti tra il piccolo Stato del Golfo e gli altri paesi arabi.«Noi come Germania» – ha detto Gabriel – « insieme ai nostri amici europei proveremo a fare di tutto per evitare una maggiore escalation del conflitto e risolvere questa situazione al più presto possibile» annunciando, poi, che presto incontrerà nella capitale tedesca anche l’omologo saudita, Adel Al-Jubeir. «Da questo incontro – ha precisato –capiremo di più circa i motivi delle dure misure messe in atto dai sauditi nei confronti del Qatar».

La linea, confermata ieri al vertice del Cairo, può avere successo? Che prospettiva attende questa crisi? Per rispondere a questi quesiti ci siamo rivolti a Andrea Dessì, ricercatore presso l’Istituto Affari Internazionali (IAI) di Roma, programma Mediterraneo e Medioriente.

Il blocco economico da parte dei quattro può essere una strategia vincente o rischia di rinforzare il rapporto Iran-Qatar, che sembra essere l’obiettivo di questa rottura diplomatica?

La decisione dei quattro paesi (Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto e Bahrein) di instaurare un blocco economico contro il Qatar dovrebbe essere preso come un esempio chiave – un caso studio eccellente – dell’inesperienza nel gestire i rapporti internazionali, specie nel campo strategico-diplomatico, da parte di questi paesi. Non si può quindi certo parlare di strategia vincente, e se si parla di strategia allora l’approccio dei quattro paesi è stato completamente fallimentare. Basta guardare al coro di disapprovazione internazionale, al fatto che alcuni paesi del Golfo (Kuwait e Oman) non la vedono allo stesso modo degli Emirati e l’Arabia Saudita e il fatto che le accuse pubbliche sollevate come giustificazione per il blocco sono in seguito state contraddette e di fatto dimostrate come false o almeno esagerate.

Prima di parlare di strategia bisogna comunque capire le motivazioni di fondo che hanno portato a questa crisi. Sebbene si parli molto dell’Iran – collocando quindi la crisi del Qatar all’interno della più ampia rivalità geostrategica tra l’Arabia Saudita e l’Iran – in realtà è molto difficile pensare che sia davvero l’Iran la causa principale della crisi. Sebbene il Qatar mantiene rapporti con l’Iran, lo fanno anche l’Oman e il Kuwait, e gli Emirati Arabi stessi sono tra i principali partner commerciali dell’Iran.

La causa principale della crisi si trova invece nelle rivalità intra-Arabe e Turche che nascono in seguito alle rivolte arabe del 2011 e sono esplose dopo le contro-rivoluzioni sostenute dall’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi, che di fatto hanno soppresso molte delle speranze delle rivolte. Il nocciolo della questione rimane la sindrome dell’insicurezza dei regimi in Arabia Saudita, Emirati, Bahrein e Egitto, che vedono nella democrazia e, ancora di più, nell’Islam politico una minaccia esistenziale. Mentre il Qatar e la Turchia hanno dato sostegno a varie espressioni di questo Islam politico, specie in Egitto, in Palestina e in Tunisia, dove i partiti affiliati alla Fratellanza Mussulmana hanno vinto le elezioni, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi hanno fatto di tutto per far fallire questo esperimento democratico. Da qui nasce lo scontro che a volte viene definito intra-sunnita ma che in realtà ha come principale motivazione gli scontri di potere geopolitico per la guida della regione Araba e la ricerca delle sicurezza dei regimi in gioco.

Detto ciò è certamente vero che in seguito alla crisi con il Qatar, e la chiusura dei confini e lo spazio aereo, l’Iran si è messa subito in gioco per dare sostegno al Qatar, inviando cibo e aiuti e aprendo lo spazio aereo per i voli di linea. C’è anche un enorme giacimento di gas naturale che il Qatar condivide con l’Iran, e dal quale molti dei stessi paesi Arabi che hanno instaurato il blocco contro il Qatar dipendono per i loro approvvigionamenti. Il rischio che i rapporti Qatar-Iran si consolidano a causa della crisi era ovvio a tutti dopo i primi giorni di blocco, ma questo non implica un riassestamento completo della politica estera del Qatar a favore dell’Iran. Va sempre ricordato che il Qatar ospita la più grande base militare americana nel mondo Arabo, aspetto che di certo non consentirebbe tare riallineamento, specie viste le politiche espresse dall’Amministrazione Trump riguardo l’Iran.

Che ruolo stanno giocando la Turchia e la Germania?

La Turchia, come l’Iran, si è subito mossa per dare sostegno economico, politico e diplomatico al Qatar. Entrambi hanno un allineamento di interessi, specie riguardo il sostegno alle varie incarnazioni dell’Islam politico in salsa Fratelli Mussulmani. Non a caso una delle richieste fatte al Qatar era quella di chiudere la (piccola) base militare Turca in Qatar. Richiesta subito rifiutata dal Qatar, con la Turchia che ha accelerato l’invio di personale e soldati verso la base. Il ruolo Turco si basa sulla necessità di salvaguardare il principale alleato Arabo nel Golfo Persico e, in maniera minore, nel modo Arabo allargato. Vi è anche un elemento di interesse nazionale, perché il governo Turco – anche esso affiliato ai Fratelli Mussulmani – sa di essere anche loro nel mirino dei quattro paesi coinvolti nella crisi con il Qatar. Vi sono anche state varie accuse passate – mai di fatto provate – da parte del governo Turco che puntava il dito contro alcuni elementi vicini al potere negli Emirati come uno dei sostenitori economici del Golpe militare fallito in Turchia. A queste accuse si sono ora aggiunte altre che sembrano indicare una strategia Emirata-Saudita per portare ad un colpo di stato nel Qatar, eventualità ormai di fatto scongiurata per via dell’attenzione mediatica e il tempo trascorso dall’inizio della crisi. La Turchia però non può pensare di mediare nella crisi, perché di fatto considerata di parte da molti degli attori coinvolti. Ankara si limita quindi a dare sostegno al Qatar, dimostrando quanti il piccolo paese non sia infatti sotto completo embargo e gode ancora di molti contatti internazionali significativi.

La Germania invece cerca di calmare le tensioni, esortando al dialogo e dando sostegno ai tentativi di mediazione da parte del Kuwait. Tra i paesi Europei, sono la Germania, la Francia e il Regno Unito che hanno cercato di attivare i canali diplomatici per scongiurare un ulteriore inasprimento delle crisi. Purtroppo, manca una voce Europea, e l’Alto Rappresentante per la Politica Estera e Di Difesa Europea – Federica Mogherini – non è riuscita a dare risalto ad una posizione chiara e decisa per conto dell’Unione. Anche questa è un’altra occasione mancata per l’Europa.

Qual è la posizione americana nella crisi tra Qatar e gli altri Paesi del Golfo?

L’amministrazione Trump è senz’altro parte del problema. Un ruolo di facilitatore nella crisi lo ha avuto, consciamente o inconsciamente che sia. Il problema è che – a differenza di Obama che si è sempre rifiutato di essere trascinato nelle faide intra-regionali – Trump, per via della sua inesperienza e l’obbiettivo di scardinare l’intera legacy di Obama, ci si è subito fiondato. L’ostilità verso l’Islam Politico e i fratelli Mussulmani trova molto sostegno all’interno di certe cerchie di potere vicino al presidente Usa. Riguardo gli Usa c’è molta confusione, con Trump e la Casa Bianca che dice una cosa (molte volte via Tweet) e il Dipartimento di stato e altri ufficiali del pentagono che dicono l’opposto.

Vi sono due tasselli importanti da considerare per inquadrare il ruolo Usa. Il primo è quello della necessità di limitare il coinvolgimento Americano nell’area mediorientale dopo i disastri di Iraq e Afghanistan. Questa necessità implica quindi due possibili strategie. La prima sarebbe una continuazione di quella perseguita da Obama, una specie di ‘offshore balancing’ in cui le potenze regionali si bloccano a vicenda con il sostegno a distanza della grande potenza Usa. Questo si vedeva chiaramente nei tentativi di Obama di portare l’Iran al tavolo dei negoziati ma allo stesso tempo continuare il sostegno militare verso gli alleati del Golfo per creare una specie di ‘balance of power’ nel Golfo che avrebbe diminuito la possibilità di guerra e portato (si sperava) ad una apertura verso il dialogo.

Il secondo approccio – quello che sembra stia perseguendo Trump – si basa invece su di una specie di scambio. Gli Usa danno (piu o meno) mano libera agli alleati Arabi del Golfo (incluso in questo caso l’Egitto di Al-Sisi) per seguire i propri interessi e strategie. In cambio assicurano agli Usa due cose: la prima riguarda gli investimenti Arabi nell’economia statunitense – vero obbiettivo primario di Trump. Questi investimenti sono sia nell’ambito dell’infrastruttura che nell’acquisto di armamenti. La seconda si incentra invece su di Israele e i rapporti – oramai neanche più tanto segreti – tra Israele, l’Arabia Saudita e gli Emirati. Qua si gioca una seconda partita, il secondo tassello importante da inquadrare, anche questa molto vicina agli interessi Usa e di Trump. Si basa sul sostenere una strategia per una normalizzazione dei rapporti con Israele che a sua volta dovrebbe – ma in pochi ci credono veramente – portare ad una ripresa dei colloqui di pace in Israele-Palestina. Il cosiddetto approccio ‘outside-in’ però è una fantasia e rischia anche qua di portare ad ulteriori crisi. Tutto ciò dimostra ancora una volta come gli Usa di Trump non abbiano ancora una strategia coesa per la regione. Questa mancanza può portare a seri rischi, specie vista la inesperienza dei vari attori coinvolti nella crisi odierna, anche da parte Usa.

Quale potrebbe essere il passo successivo della crisi? E’ remota la possibilità di un conflitto?

Difficile da dire con certezza. L’unica certezza è che un conflitto armato contro il Qatar sia davvero difficile da immaginare. Questo per via della presenza della base Usa e Turca ma anche per via del sostegno internazionale per una risoluzione diplomatica e dal fatto che gli Emirati e anche l’Arabia Saudita dipendono molto dai approvvigionamenti di gas dal Qatar. Più probabile che si continui con le pressioni economiche e che man mano si trovi una soluzione diplomatica alla crisi. Serve però una soluzione capace di non far perdere la faccia ai vari attori coinvolti, incluso il Qatar. Qua sta il difficile e anche il rischio, e qua sta anche la prova inconfutabile di quanto non si possa parlare di strategia vincente da parte dei quattro paesi. Potrebbero esserci degli accordi – probabilmente mediati da attori terzi che godono di più fiducia – per rivedere i conti economici del Qatar per eventuale sostegno a gruppi armati in varie zone, ma delle 13 richieste fatte al Qatar è difficile pensare che vengono accettate. Sono richieste inaudite e completamente fuori dalla realtà. Probabile che passerà quindi molto tempo prima che si arrivi ad un accordo. Nel mentre il Qatar continuerà a ricevere sostegno da vari attori e questo dimostra quando il blocco economico-diplomatico sia stato un completo fallimento.