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Braccialetto elettronico, i guai di un sistema che in Italia non va

6 Luglio 2017

L’ultimo caso è quello dell’attore Diele. Bloccato in carcere prima che arrivasse il dispositivo per controllare i detenuti ai domiciliari. “Buttati” 81 milioni in 10 anni, appalti opachi e costi elevati: tutti i problemi.

La vicenda dell’attore Domenico Diele, arrestato per omicidio stradale il 24 giugno 2017 e trattenuto in carcere in attesa dell’assegnazione di un braccialetto elettronico, arrivato il 6 luglio, ha riportato l’attenzione su questo dispositivo concepito per facilitare la gestione dei detenuti in libertà vigilata. In Italia la procedura non ha mai funzionato come avrebbe dovuto, tra dimenticanze, numeri insufficienti, costi esorbitanti e appalti contestati.

PROVVEDIMENTO SUBITO ZOPPICANTE. L’adozione delle “procedure di controllo mediante mezzi elettronici o altri strumenti tecnici” risale alla legge 4 del 19 gennaio 2001 che introdusse nel codice di procedura penale l’articolo 275-bis recante disposizioni sulle particolari modalità di controllo di individui sottoposti misure cautelari personali. All’atto pratico il provvedimento si dimostrò subito zoppicante.

NEL 2003 CONVENZIONE CON TELECOM. Vennero stipulati contratti di noleggio degli apparecchi con cinque differenti società fino a che nel 2003 il ministero dell’Interno decise di mettere ordine optando per una fornitura unica su tutto il territorio nazionale e stipulando una convenzione con Telecom S.p.A. che prevedeva installazione e assistenza di 400 dispositivi, poi aumentati in corso d’opera a 2 mila. Parallelamente le centrali operative di carabinieri, polizia e guardia di finanza delle maggiori città italiane venivano predisposte per gestire gli apparecchi. Nonostante i costi di avviamento della procedura, il braccialetto elettronico rimase un oggetto misterioso e di fatto inutilizzato.

I tribunali amministrativi e contabili iniziarono a sentire puzza di bruciato. Nel giugno 2012 il Tar del Lazio con la sentenza n. 4997/2012, dopo un ricorso di Fastweb, decise di annullare l’accordo tra il Viminale e Telecom per la fornitura che faceva parte di una convenzione stipulata a trattativa diretta per una commessa complessiva di 521 milioni di euro che comprendeva non solo i dispositivi per la sorveglianza a distanza, ma anche telefonia fissa e mobile, trasmissione dati e videosorveglianza e il numero telefonico 113.

ANDAVA INDETTA UNA GARA D’APPALTO. Secondo il tribunale amministrativo andava indetta una regolare gara d’appalto e non era accettabile la posizione del ministero dell’Interno che non aveva scorporato la fornitura dei braccialetti sostenendo che il cambio del fornitore avrebbe rischiato di disseminare impropriamente informazioni coperte da segreto.

SPESE ENORMI E UN IMPIEGO SCARSO. Nel 2012 la Corte dei conti nella deliberazione n.11/2012/G mise in luce le spese enormi sostenute per un dispositivo che non veniva impiegato: «Dall’accordo del 2003», calcolava la Corte, «l’Amministrazione ha convenuto con Telecom un importo, una tantum, di 8 milioni 641 mila euro (Iva esclusa) per l’attivazione del servizio e un compenso annuo di 9 milioni 83 mila euro (Iva esclusa) in rate semestrali, pari, per otto anni, fino al 2011, a 72 milioni 664 mila euro, per un totale di euro 81 milioni 305 mila euro».Anche i magistrati contabili rilevavano che la convenzione con Telecom aveva qualcosa di poco opportuno, anche perché nel 2012 si era varato (prima del pronunciamento del Tar) un rinnovo automatico fino al 2018: «Ha reiterato perciò una spesa, relativamente ai braccialetti elettronici, antieconomica e inefficace, che avrebbe dovuto essere almeno oggetto, prima della nuova stipula, di un approfondito esame anche da parte del ministero della Giustizia, dicastero più in grado di altri di valutare l’interesse operativo dei magistrati (…)».

INESATTEZZA NEL PARLARE DI “PROROGA”. E ancora si notava che «la conferma del contraente Telecom, avvenuta a prezzi e prestazioni non identici (per esempio con l’aumento degli strumenti disponibili) e perciò qualificata inesattamente come una “proroga”, avrebbe dovuto, o potuto, essere oggetto di riflessione e/o di trattative, se non di comparazione con altre possibili offerte».

CONFLITTO DI COMPETENZE FRA MINISTERI. La Corte non solo denunciava costi e assenza di gara d’appalto, ma anche il fatto che al Viminale il rinnovo della convenzione fosse avvenuto a prescindere delle indicazioni dei magistrati sull’applicazione effettiva della procedura dell’assegnazione del braccialetto elettronico. Si apriva quindi anche un conflitto di competenze tra il ministero dell’Interno e quello della Giustizia.

Nel dicembre del 2013 Alessandra Bassi, gip al tribunale di Torino, e Christine Von Borries, pm della procura della Repubblica di Firenze, denunciarono in un articolo comparso sulla rivista Questione Giustizia le dimensioni e le ragioni di questo costoso flop. Nonostante fossero perfettamente funzionanti e operativi dal 2005, scrivevano i due magistrati, i braccialetti elettronici non venivano usati: sui 2 mila disponibili ne erano attivi solo 55.

I DETENUTI COSTANO 125 EURO AL GIORNO. Lo scarso appeal registrato dai dispostivi elettronici era riconducibile, sempre secondo l’articolo, «più che a una preconcetta diffidenza dei magistrati italiani, a un colossale quanto incomprensibile difetto di informazione: pochi di noi sono difatti a conoscenza della concreta possibilità di applicare i braccialetti elettronici pur previsti dal codice di rito». Riassumendo: in 10 anni 81 milioni di euro spesi per un dispositivo applicato a poche decine di persone, quando il costo medio dello Stato per detenuto in carcere è di circa 125 euro al giorno.

RICHIESTA SALITA, APPARECCHI PRESTO FINITI. Di fronte a questo empasse è intervenuto infine il legislatore incentivando l’uso della sorveglianza elettronica. Il decreto “svuota carceri”, le leggi contro lo stalking e la violenza di genere e la riforma dell’articolo 275 bis del codice di procedura penale sono andati tutti nella direzione di un massiccio impiego del braccialetto. La richiesta finalmente è salita e i dispositivi disponibili sono presto finiti.

Il ministero dell’Interno nel dicembre 2016 ha indetto una gara d’appalto i cui termini sono scaduti nel febbraio 2017 a cui hanno partecipato Fastweb spa, Rti Engineering ingegneria informatica e Telecom Italia Spa. Una commissione da quasi 45 milioni di euro per due anni e mezzo e attualmente in corso di aggiudicazione.

NUOVO BANDO IN ARRIVO A BREVE? Intanto il ministro della Giustizia Andrea Orlando alla trasmissione di Radio Rai Un giorno da pecora il 29 giugno 2017 ha richiamato in causa ancora il conflitto di competenze tra ministro dell’Interno e quello della Giustizia, già sollevato dalla Corte dei Conti: «Per un errore del legislatore», ha detto», la competenza dell’acquisto è del ministro dell’Interno e non della Giustizia. È tanto che li abbiamo chiesti, il nuovo bando dovrebbe chiudersi entro qualche settimana».ù

Certo è che il problema sembra tornare all’attenzione di informazione e opinione pubblica solo quando si tratta di casi di detenuti eccellenti. La questione della carenza dei braccialetti elettronici – che va ricordato non è una forma aggiuntiva di custodia cautelare ma una garanzia contro il pericolo di fuga – era emersa nel dicembre del 2015 quando vennero negati i domiciliari a Pierangelo Daccò, faccendiere compagno di vacanze dell’ex presidente lombardo Roberto Formigoni, ed è ricomparsa nel 2017 per il caso dell’attore Domenico Diele, ma anche per l’imprenditore napoletano Alfredo Romeo detenuto nel carcere di Regina Coeli.

BRITANNICI DA RECORD: NE USANO 20 MILA. L’obiettivo è che il braccialetto diventi un’estensione dei diritti degli indagati e una sicurezza maggiore per i cittadini, così come avviene in Gran Bretagna, il Paese europeo che ne fa più largo uso e dove più di 20 mila cittadini sono sottoposti a questa misura di sorveglianza.