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Iran, la crescita economica che non si vede

10 Giugno 2017

Rohani ha riportato l’Iran tra i player internazionali dell’industria petrolifera. Ma disoccupazione, contrazione del potere d’acquisto e l’isolamento che vuole Trump per il Paese affossano la ripresa.

Nel 2014 a Davos, quando Hassan Rohani fece le prime importanti aperture all’Occidente sul nucleare, la stampa scrisse che l’Iran era come l’Urss un secondo prima di implodere. Alta inflazione, ancora più alta disoccupazione, struttura produttiva obsoleta, nessun accesso alle tecnologie e ai capitali dei Paesi più ricchi. Tutto a causa della chiusura all’esterno seguita alle sanzioni occidentali. Tre anni dopo, e a due dall’intesa con Barack Obama, la situazione non molto è cambiata.

LA SCOMMESSA SUL PETROLIO. Alle ultime elezioni Rohani non ha vinto soltanto perché emblema dei riformisti. Decisive sono state le promesse di destinare 15 miliardi di dollari a progetti infrastrutturali nelle zone rurali del Paese e tra i 3 e i 5 miliardi a un piano destinato ai più poveri e bisognosi. Per non parlare del fatto che ha firmato un accordo che ha riportato l’industria petrolifera locale a essere un player decisivo del settore. Entro la fine dell’anno, infatti, il Paese tornerà a pompare circa 1,5 milioni di barili al giorno. Che nel medio termine potrebbero arrivare a quattro. Ed è bastato questo per dare una scossa a una Nazione bloccata. Per esempio nel 2016, e dopo cinque bilanci negativi, il Pil è tornato positivo (+4,6%). Se non bastasse, le esportazioni di merci non petrolifere hanno raggiunto nello stesso anno, come ha ricordato spesso in campagna elettorale lo stesso Rohani, «circa 43,9 miliardi di dollari, indicando un volume di 300 milioni di dollari superiore in confronto alle importazioni».