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Vittoria La Costa di La mia misura – per una danzaterapia all’insegna dell’inclusione

Di Milena Rampoldi, ProMosaik. Qui
di seguito la mia intervista con Vittoria La Costa della compagnia La
mia misura
, un progetto di danzaterapia all’insegna dell’inclusione dei
diversamente abili. Il 29 giugno 2017 il gruppo sarà a Berlino per un workhop in
collaborazione con Artemisia.
Vorrei ringraziare Vittoria per le sue risposte dettagliate e le foto che ci ha
mandato. 
Qui trovate la manifestazione del 29 giugno 2017 a Berlino:

https://www.facebook.com/events/217545925409355/ 



Come hai trovato la tua strada
verso la danzaterapia?
La danzaterapia è stato un percorso che ho
intrapreso tanti anni fa. Ho iniziato a studiare danza da adolescente e negli
anni ’80 ho cominciato a lavorare con alcune compagnie di teatro danza.
Nonostante la passione sentivo però che qualcosa mi mancava, o forse che
cercavo qualcosa di diverso. Mi mancava una relazione autentica con gli altri
danzatori, la condivisione e lo scambio, mentre quello che sentivo era una
competitività “senza esclusione di colpi”, un po’ nello stile “mors tua vita
mea”. Nello stesso periodo avevo iniziato “casualmente” a lavorare come
operatrice in un centro diurno per persone disabili. Qui mi avevano colpito
tantissimo le diverse modalità di relazione che dovevo adottare, la ricerca di
canali altri attraverso cui comunicare. Allo stesso tempo sentivo una
semplicità di fondo che mi faceva apparire evidente l’inutilità di tante
sovrastrutture e complicazioni nell’interazione con l’altro. Così mi è venuto
in mente di provare a mettere insieme questi due aspetti, la danza e la
disabilità, che in me avevano caratteristiche complementari e ho iniziato a
cercare qualcosa che potesse sostenermi in questo progetto.
Nel 1992 ho iniziato la formazione come
danza-movimento terapeuta presso Art Therapy Italiana e da allora ho continuato
in questa direzione lavorando con diversi gruppi in varie cooperative sociali
di Roma. In questo ambito i gruppi sono generalmente formati da persone
diversamente abili e i loro assistenti domiciliari. Circa una decina di anni fa
insieme alla mia collega Roberta Bassani, abbiamo iniziato a notare che alcuni
ragazzi dei gruppi di danzaterapia avevano voglia di fare qualcosa di più, di
uscire all’esterno. Inoltre quella che era un’integrazione dovuta
principalmente a obblighi lavorativi (gli assistenti domiciliari) che potevano
avere o meno una loro motivazione alla partecipazione al gruppo, poteva
trasformarsi in una scelta personale. Nel 2011 siamo riuscite a dare vita a un
gruppo di teatro danza che avesse caratteristiche diverse, quindi che fosse
aperto a tutti coloro che volevano mettere in gioco le proprie diverse abilità
e che fosse indirizzato all’esterno, promuovendo spettacoli, workshop, mostre,
viaggi, partecipazione a rassegne ed eventi, non solo legati all’ambito della
disabilità. Nasce così la Compagnia della Mia Misura, un progetto di inclusione
sociale attraverso la danza e la cultura.


Perché il nome La mia misura?
La scelta del nome è avvenuta con
un’elezione democratica. Ogni partecipante ha proposto la propria idea e alla
fine il nome più votato è stato “della mia misura”. Il ragazzo che l’ha
proposto si riferiva alla favola di Cenerentola, nel momento in cui lei indossa
la scarpetta di cristallo e dice: “è proprio della mia misura!” e quindi viene
riconosciuta dal principe e diventa principessa. La cosa che ci piace di più di
questo nome è che rispecchia il fatto fondamentale che ognuno nel gruppo ha un
proprio spazio, che è riconosciuto e si percepisce sia come individuo sia come
parte del gruppo stesso. Questo aspetto è molto importante nel nostro lavoro.
Che importanza ha la danza per
superare le barriere tra le persone cosiddette “normali” e le persone
diversamente abili?
La danza (e il movimento in generale) è un
canale privilegiato attraverso cui interagire e comunicare, soprattutto con
persone che hanno difficoltà in ambito cognitivo, emotivo, relazionale o
fisico. Questo discorso non è riferito solo alle persone disabili ma a chiunque
voglia scoprire le proprie diverse abilità. A questo livello può avvenire uno
scambio reale dove quelli che sono percepiti come limiti (timidezza o tratti
autistici o paura del giudizio o tratti psicotici o ritardo mentale o vergogna
o scarsa autostima, e via dicendo) sono difficoltà che ognuno di noi porta con
sé, a cui bisogna prestare attenzione perché ogni persona ha bisogno di un
ascolto particolare, ma che possono diventare una grande risorsa e modi diversi
con cui guardare il mondo.

Che obiettivo principale
perseguite con il workshop del 29 giugno a Berlino in collaborazione con
Artemisia?
Negli ultimi anni abbiamo iniziato a
collaborare con altre associazioni attraverso i progetti europei. Abbiamo
attivato azioni per lo scambio di buone prassi e, con le mobilità previste dai
progetti, abbiamo cominciato a viaggiare. Poco dopo abbiamo esteso la proposta
anche ad alcune delle persone con disabilità che fanno parte del gruppo. Siamo
partiti da coloro che avevano già fatto questa esperienza con le loro famiglie,
con l’obiettivo di allargarla in futuro a tutto il gruppo. L’esperimento ha funzionato
così bene che dallo scorso anno abbiamo deciso di non aspettare solo le
mobilità dei progetti europei, ma di organizzare anche viaggi per conto nostro,
per attivare nuove conoscenze e scambi di esperienze con realtà simili alla
nostra. Lo scorso anno siamo stati a Londra dove abbiamo partecipato a dei
workshop con AMICI Dance Theatre e quest’anno partiamo alla volta di Berlino,
dove vive e lavora una mia carissima collega e amica, Annalisa
Maggiani
, che ha iniziato ad attivare una rete sul territorio che ci ha
portato a conoscere e collaborare con Artemisia. Abbiamo quindi scelto questa
associazione per proporre il nostro contributo, un workshop aperto a tutti
(disabili e non) con al suo interno la presentazione di alcune nostre
coreografie. Per arricchire questo scambio Annalisa ci offrirà un laboratorio
sulla danza Butoh.


Parlaci di Butoh!
Del Butoh mi colpisce molto la rarefazione
del gesto e all’opposto una condensazione altissima dell’emozione
nell’espressione del corpo. Una delicatezza che si esprime con forza. Mi fa
pensare alla “prima materia” degli alchimisti o alle parti oscure, nascoste o
estremamente fragili che ognuno di noi ha. Come il piede di coccio su cui
poggia il suo peso il “veglio di Creta” raccontato da Dante Alighieri! La
fragilità su cui si basa la forza, quella che può trasformarsi in risorsa. Nel
nostro ultimo spettacolo “Luci nel buio” abbiamo affrontato proprio questa
tematica, attraverso un lavoro di ricerca coreografica e di scrittura creativa
su diversi aspetti della vita di ognuno di noi: solitudine, conflitti, momenti
di condivisione autentica con le altre persone. Questo spettacolo si sviluppa come
un viaggio interiore che inizia quando le ombre prendono forma, si
materializzano e ci risucchiano, ci lasciano a terra in un luogo sconosciuto,
dove la paura e la solitudine ci portano a credere che forse saremmo meno
spaventati se solo riuscissimo a confonderci con gli altri. Ma presto ci
accorgiamo che questo non basta e una parte di noi preme per emergere, per urlare
chi siamo. Cerchiamo allora un modo per differenziarci dall’altro. Non vogliamo
più essere confusi. Proviamo a creare un confine, a difenderlo, a contrapporci
con forza contro chiunque sia diverso da noi… ma anche questa strada conduce a
un vicolo cieco. Quando pensiamo di non avere più speranza, quando contattiamo
la nostra fragilità, allora iniziamo a riconoscere noi stessi e solo così
possiamo vedere l’altro per quello che è. Ora siamo in grado di tendergli la
mano. Non c’è più bisogno di qualcuno, di chiunque, per non essere soli, perché
è proprio lui o lei che vogliamo con noi. Magari per fare insieme un pezzetto
della strada.


Danza e creatività come possono
curare il mondo dalla violenza e creare un mondo di pace dal basso?
Io credo che la danza sia un linguaggio che
crea una sorta di substrato comune. Ci porta verso l’essenza delle cose, ad un
livello in cui ci muoviamo utilizzando tutto il nostro essere e non solo la
parte logico-razionale. Ci porta ad essere centrati su noi stessi (con il corpo
e con la mente) e questo ci permette di entrare in relazione con l’altro e con
l’ambiente senza cadere perché abbiamo perso l’equilibrio. Ci aiuta a
sperimentare che essere parte di un gruppo non significa perdersi, e che
lasciar entrare le persone in un gruppo non vuol dire confondersi e non avere
più una propria identità culturale. Penso che questa prospettiva possa aiutare
a vedere la diversità come una risorsa e non un pericolo da cui difendersi. Non
so se arriveremo mai a cambiare il mondo, ma credo che se questo approccio si
diffondesse tra le persone, i gruppi, le comunità, potrebbe davvero dare un
grande contributo per la creazione di un mondo di pace che prenda vita dal
basso.
Noi, intanto, continuiamo a viaggiare, a conoscere
persone che lavorano in maniera simile alla nostra e a scambiare con loro idee
ed esperienze. Perché sono le piccole cose che possono portare a grandi
cambiamenti… e poi da qualche parte bisogna pur cominciare!


Vittoria La Costa
Psicologa, Psicoterapeuta, Dottoressa in Lettere; Danza
Movimento Terapeuta e Supervisore APID; Art Psychoterapist (Goldsmiths’
College, University of London).
Presidente di “La Mia Misura ASD”, fondatrice e coreografa
della Compagnia della Mia Misura, progetto di Teatro Danza sull’inclusione
sociale.
Da oltre vent’anni conduce gruppi di Danza Movimento Terapia
con persone disabili e gruppi di Ginnastica Dolce con persone anziane. Si
occupa anche di aggiornamento per operatori culturali, sportivi e sociali,
collaborando con diverse associazioni a livello locale, nazionale ed europeo.