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La mobilitazione per lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi

2 Maggio 2017

Il governo israeliano minaccia di fare morire i 1.500 carcerati in protesta contro le condizioni in cella. Mentre la campagna #SaltWaterChallenge diventa virale. L’attivista Morgantini a L43: «L’Onu si schieri».

Un bicchiere di acqua salata, come quelli dei 1.500 detenuti palestinesi in sciopero della fame da più di due settimane insieme al loro leader in cella Marwan Barghouti, tra le più grandi proteste degli ultimi 20 anni nelle carceri israleliane. Lanciata da uno dei figli del parlamentare palestinese arrestato nel 2002, la campagna #SaltWaterChallenge sta diventando virale sui social network. Qualche giornale e tivù inizia anche a parlarne, rompendo il silenzio assordante di gran parte dei media stranieri e della comunità internazionale sulle condizioni e sulle prospettive dei carcerati in digiuno per la «dignità e la libertà». Nella terra che viene chiamata santa.

DIRITTI UMANI VIOLATI. Dal 17 aprile, la 43esima Giornata per i prigionieri palestinesi, quasi un quarto dei 6.500 detenuti dagli israeliani dei Territori e di Gerusalemme Est non mangia per chiedere la liberazione come in altri scioperi passati. Ma, prima ancora, esige il rispetto dei diritti basilari dei prigionieri e delle Convenzioni di Ginevra, da mesi sistematicamente violati nonostante anche Israele sia firmatario dei testi internazionali. Telefonare ai famigliari, ricevere visite e puntuali cure mediche per malattie anche gravi, essere in contatto con gli avvocati e potere leggere un libro sono possibilità progressivamente ristrette dal governo israeliano più sionista e più di destra mai eletto.