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Poesia del giorno. Pedro Salinas


Addio con variazioni 

Ma che peccato, peccato, peccato
che quel divano dov’era sdraiato
il tuo corpo serenissimo,
come una sera sopra il suo orizzonte,
fosse di quel colore azzurro unanime!
Ah, se avesse avuto
la sua tela con disegni geometrici
ad indicarci norme o un seminato
di dolci fiorellini colorati,
per calmare la smania dei giardini,
senza pianti, così le quattro e mezza
sarebbero state ben altro: tutto,
la morte di orologi e di stagioni.
E chiamando una macchina
noi saremmo saliti, tra la neve,
a cercar manichini, a farci fare
un buon amore invernale su misura.
Ma quella tela azzurra, azzurra, azzurra,
a te dette un colore d’eternità, infinita.
Ed io mi figurai che su quel fondo
mai ti saresti mossa da te stessa.

Che peccato
che tu non fossi uscita dalla stanza
— dove, incredibile, in dieci minuti,
si trasformò il carbone in un diamante
che porterai sempre all’anello —,
come ti è naturale — tu, splendore —:
sfondando il tetto come per miracolo,
dissolvendoti tutta verso l’alto;
o al contrario, gettandoti
giù da quaranta piani mascherata
da una lettera con una scrittura
minuscola e che scende così lenta
che quando arriva a terra è ormai bianchissima
ed ha lasciato in aria la sua storia
perché gli uccelli imparino a cantare!
Che errore, andare via con le tue gambe,
nel fondo corridoio, ed accettando,
la porta stretta — uso secolare:
mentre io guardavo il tuo corpo
rimpicciolire nell’allontanarsi,
senza vederlo, se non nello specchio,
rimpiccolente, con la cornice d’acqua,
attaccato sopra il camino.
Perché ti ho visto andartene così, diminuendo?
Si stringeva il tuo petto, ormai impossibile
che lì vivessero due, e lo sguardo,
diventato il tuo volto così piccolo,
restò sospeso in aria, sostenuto
da due ali di lacrime.
Al contrario della rosa,
te ne andasti chiudendoti — agonia
nel mercurio convesso —, esaurendo
la tua splendida vita ad ogni passo,
per le stesse ragioni della sera
quando la luce dilegua, in gennaio,
che eran le cinque e un quarto
e in un altro emisfero ti aspettavano.
Anch’io ti aspetto. Si resuscita
sempre dentro lo stesso specchio
dove si muore. Io passerò gli anni
andando dal mercurio ai laghi,
semmai tu ti stancassi
d’essere, giorno giorno, il tuo ricordo.

E che peccato, sì, quando ripenso
a quel ballo profondo,
a quel nono piano, sotto terra
 — il cabaret più nuovo —,
e al nostro lento valzer, così lontano dalla vita
al nostro valzer,
al rigoroso livello dei morti!
Che peccato
che ti fossi stancata di ballare con me
proprio quando stava albeggiando
negli alti lampadari, sul soffitto,
in nidi di cristallo il nuovo uccello
che stava per volare al cielo
in cerca di quegli ordini che attendi!
Ma tu eri stanca. Lo capisco.
Avevamo ballato sette giorni
quel valzer lento, molto più che lento,
capendoci solo con gli occhi
e con le maschere sempre sul viso.
Poi venne la mia voce, ad invitarti,
e inchinandomi come
un vecchio frac romantico
con dentro il suo presagio di cadavere,
ti sussurrai, alle tre del mattino:
«Posso forse invitarti a questo ballo?
Discende dalle tube degli angeli,
si balla al loro tempo, e non ne hanno.
Durerà un po’ di più dei balli
soliti con le orchestre
di solitudini o d’usignoli.
E bisogna ballarlo fino in fondo.
Rimarremo da soli
in questa grande sala color mandorla,
a girare e girare
come un mondo noi due, un mondo solo
che gira sul suo amore
secondo quella legge che scoprimmo
nei nostri sguardi una sera d’estate.
E può darsi che prima che l’angelica
musica taccia nei clarini
che percorrono i cieli sulle piume,
qualcuno, nel vederci ancora uniti,
ci salvi e ci dica, collocandoci
fra le immortalità e i cipressi:
‘Ballavan bene, senza mai staccarsi,
e sempre stretti giunsero fin qui’.
(Ultimo qui dell’uomo: il suo scheletro)».
Non accettasti; stanca. Ed io ti porsi il braccio.
Pur trovandoci così in basso,
scendemmo scale,
che non ricordavamo aver salito,
perché eran fatte con gradini d’aria,
di serate, di delizie; e l’amore
si rende conto a che altezza viveva
solo quando riscende, quando conta
quanti scalini era alto il piacere
con cifre di cristallo
che tiepide gli solcano le guance.
Aspettavo alla porta della notte
una carrozza di unicorni
che conducesse a casa i nostri corpi.

In braccio ti portai sull’alta torre
e per non farti male,
per lasciarci senza patire,
io tolsi le mie mani piano piano,
e con qualcosa che era più durevole
e sempre ti amerà, ti abbandonai sulla tua spiaggia,
sulle lenzuola bianche.
E quando vidi chiudersi i tuoi occhi
compresi l’imminente:
che il mare si apprestava a riprendersi il suo.
E che se anche al mondo ci saranno
sempre le stesse aurore ad ogni giorno,
non tutte tornano le luci; un corpo
non albeggerà più con il tuo sguardo.