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Non chiamatelo amore malato: è femminicidio

15 Aprile 2017

Cominciamo a chiamare le cose con il loro nome. Prendendo atto che non si tratta di emergenza ma di una vera e propria guerra. E per vincerla noi donne dobbiamo puntare su lavoro e cultura.

Da un lato ci sono le donne “che ce l’hanno fatta” e che hanno guadagnato posizioni di potere e si battono per il #gendergap, per diffondere le materie #stem tra le ragazze, per inserire sempre di più nell’agenda della politica italiana ed europea la questione femminile, per costruire un welfare familiare efficiente. Dall’altro lato ci sono tutte le altre donne. Per esempio quelle che si rivolgono ai centri antiviolenza (che a Roma rischiano la chiusura). Per esempio quelle che subiscono la forza delle parole usate dalla tiù o dai quotidiani. Quelle che ascoltando il Tg5 sentono il termine «raptus» usato per raccontare un femminicidio (quello di Ortona). O che leggendo La Stampa vengono a sapere che è stato un «dramma della gelosia» a uccidere due donne.

LA RIVOLUZIONE? CHIAMARE LE COSE CON IL LORO NOME. Sono le donne che queste parole non hanno la forza, né il potere, di cambiarle. Come ha scritto Lorella Zanardo su Twitter: «”Il primo gesto rivoluzionario è chiamare le cose col loro vero nome” diceva #RosaLuxemburg. Ecco: dei #femminicidi a questo #Governo non importa». Questo uso errato delle parole legato ai femminicidi è sintomo di una cultura maschilista, ma anche di una scarsa presenza femminile nelle redazioni dei giornali e delle tivù in Italia. Il fatto che in un solo giorno siano state uccise tre donne e che nessuna prima pagina dei maggiori quotidiani riporti questa notizia è davvero significativo. Non è stata valutata una notizia di primaria importanza?