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Chernobyl 31 anni dopo: cosa resta del piano (e del problema) nucleare in Italia?

26 Aprile 2017

Tra un progetto abbandonato e il problema scorie radioattive, per l’Italia il tema energia nucleare presenta ancora aspetti problematici

Il 26 aprile 1986 il disastro nucleare di Chernobyl, con la sua scia di morte e le conseguenze ambientali devastanti, segnò un punto di svolta nella percezione collettiva sui rischi connessi all’attività delle centrali nucleari. E per l’Italia in particolare la chiusura di una via (tra le varie) per quanto riguarda la produzione autonoma di energia, in un paese da sempre dipendente in larga parte da forniture esterne per l’approvvigionamento energetico.

Sul solco di quell’evento uno dei cinque referendum abrogativi che portarono gli italiani alle urne nel 1987, proposto dal Partito Radicale, sostanzialmente chiedeva l’abolizione dell’intervento statale se il Comune non concede un sito per la costruzione di una centrale nucleare. L’impatto emotivo suscitato dall’incidente nella centrale ucraina di certo influì abbondantemente sul voto, così come avvenne per uno degli altri quesiti, questa volta riguardante la responsabilità civile dei magistrati: l’errore giudiziario che coinvolse il celebre conduttore televisivo Enzo Tortora infatti contribuì in maniera non trascurabile alla scelta dei votanti. Scelta che, per quanto riguarda il nucleare, si sbilanciò per l’80,21% sul sì, tracciando la strada dell’azione politica degli anni immediatamente successivi: tra il 1988 e il 1990 i Governi Goria, De Mita e Andreotti VI posero termine all’esperienza elettronucleare italiana con l’abbandono del Progetto Unificato Nucleare e la chiusura delle tre centrali ancora funzionanti di Latina, Trino e Caorso.