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“Il razzismo, anche se assume una geometria variabile, ha un carattere sistemico e unitario”: Annamaria Rivera, antropologa, antirazzista e antispecista

Di Milena Rampoldi, ProMosaik. Qui di seguito la
mia intervista con Annamaria Rivera,  antropologa e attivista antirazzista e antispecista. Ha
lungamente insegnato Etnologia e Antropologia sociale nell’Università di Bari.
Collabora con quotidiani e riviste, tra i quali “il manifesto” e “MicroMega”.
E’ autrice di numerosi saggi. Oltre a quelli citati nell’intervista, ha scritto:
Vita di Amelia. Un’autobiografia fra oralità e scrittura (Lacaita, Manduria
1984); Il mago, il santo, la morte, la festa. Forme religiose nella cultura
popolare (Dedalo, Bari 1988); Frammenti d’America. Arcaico e postmoderno nella
cultura americana (Dedalo, Bari 1989); Estranei e nemici. Discriminazione e
violenza razzista in Italia (DeriveApprodi, Roma 2003); Regole e roghi.
Metamorfosi del razzismo (Dedalo, Bari 2009). E’, inoltre, co-autrice e
curatrice de L’inquietudine dell’islam (Dedalo, Bari 2002). Nel corso del tempo
ha coltivato anche la scrittura creativa, pubblicando poesie e racconti, nonché
un romanzo: Spelix. Storia di gatti, di stranieri e di un delitto (Dedalo, Bari
2010). Il suo ultimo saggio è:
La città dei gatti. Antropologia animalista di Essaouira (Dedalo, Bari 2016)



Quali
sono le Sue aree di studio principali?

Nel corso del tempo mi sono occupata di temi svariati, ma
sempre con un approccio antropologico: dalle forme religiose popolari alla
relazione fra umani e non umani; dalla decostruzione critica di categorie e
concetti delle scienze sociali all’analisi della “società pluriculturale”. Da
circa venticinque anni ho concentrato il mio interesse sullo studio e la
ricerca intorno a strutture, dispositivi e pratiche dell’etnocentrismo, della xenofobia,
dell’islamofobia e del razzismo. A tal proposito, uno dei volumi più rilevanti
è, a mio parere, quello scritto con René Gallissot e Mondher Kilani, L’imbroglio etnico, in quattordici
parole-chiave
(Dedalo, Bari 2012), che ha conosciuto diverse edizioni e
ristampe. Nel contempo ho approfondito la riflessione teorica sui nessi che
legano il razzismo e il sessismo allo specismo. Lo avevo fatto già nel 2000 in Homo sapiens e mucca pazza. Antropologia del rapporto con il mondo
animale 
(Dedalo, Bari). Sono ritornata sul tema con La Bella, la Bestia e l’Umano. Sessismo e razzismo, senza
escludere lo specismo
(Ediesse, Roma 2010).  
Dopo il 14 gennaio 2011, ho messo a frutto la conoscenza pregressa
della società tunisina, per analizzare il versante socio
culturale della rivoluzione e della transizione. Su questo
tema ho scritto molti articoli e un saggio breve (La rivoluzione del 14 gennaio. L’imprevisto prevedibile abbatte una
dittatura al tempo dell’umanitario
in: Ambra Pirri, a cura di, Libeccio d’Oltremare, Ediesse, Roma 2011,
pp. 207
245).  Anche
il volume
Il fuoco della rivolta, Torce umane dal Maghreb all’Europa (Dedalo, Bari 2012) trae spunto dal caso
tunisino, in particolare dal suicidio per fuoco di Mohamed Bouazizi, “la
scintilla della rivoluzione”. Più recentemente, ho pubblicato La città dei gatti. Antropologia animalista
di Essaouira
(Dedalo, Bari 2016), frutto di una ricerca di campo sulle
relazioni che gli abitanti di questa città del Sud
Ovest marocchino intrattengono con gli animali.   

Vuole
soffermarsi su Il fuoco della rivolta?

In questo saggio, come rivela lo stesso titolo, ho
analizzato i suicidi per fuoco che hanno moventi sociali e/o politici,
espliciti o impliciti, a partire da quello di Bouazizi. Il tema principale della mia ricerca è l’autoimmolazione in Tunisia, prima e dopo Bouazizi, ma faccio anche
un’analisi comparativa con l’Algeria, il Marocco, la Francia, la Grecia, l’Italia e Israele.
Nei casi che ho analizzato è principalmente la disperazione sociale,
espressione di una più vasta disperazione collettiva, a spingere verso la forma
più pubblica e spettacolare di suicidio. E’ un atto estremo di protesta per la
propria condizione intollerabile, ma anche di rivolta contro qualche
rappresentante del potere, piccolo o grande che sia, il quale ha ferito la
dignità di chi poi si darà fuoco.
Il tema della dignità ferita e rivendicata accomuna casi
accaduti nei Paesi del Maghreb, come in Europa e in Israele. Per questa e altre
ragioni, mi sembra che si tratti dello stesso ciclo di autoimmolazioni di protesta. Non per caso in Italia esso esordisce col
suicidio per fuoco di una persona immigrata: il venditore ambulante Noureddine
Adnane, di nazionalità marocchina, che s’immolò a Palermo il 10 febbraio 2011,
per ragioni e in circostanze del tutto simili a quelle di Bouazizi: come lui
era vessato da una squadra della polizia municipale.

Ci
parli dei suoi studi sull’islamofobia.

 
Per cominciare, penso che, sebbene io stessa lo abbia usato, il termine
d’islamofobia sia problematico, sicché dovremmo cercare di coniarne uno più
appropriato. La fobia è, infatti, una paura intensa e irrazionale, mentre con
questo lemma spesso indichiamo non solo umori, atteggiamenti, pratiche
discorsive, espressioni e aggressioni verbali “spontanee” e dettate dalla
paura, ma anche atti deliberati
di discriminazione, aggressione fisica, repressione ingiustificata (quest’ultima
anche da  parte di soggetti istituzionali)
ai danni di persone di fede musulmana o presunte tali.
Comunque la si chiami, essa ha dei tratti ricorrenti: la rappresentazione dell’islam come blocco
monolitico connotato da arretratezza e fanatismo, e del musulmano come rigidamente determinato dalla tradizione e dalla
religione. Questa è concepita, a sua volta, come corpus invariabile, sicché diviene figura dell’arcaicità,
dell’immobilità, dell’impermeabilità al cambiamento, in opposizione con i
caratteri di modernità, dinamismo, disposizione al mutamento attribuiti alla
“civiltà” europea e più in genere occidentale. Qui possiamo rinvenire temi e
dispositivi analoghi a quelli dell’antisemitismo “storico”: anzitutto, la
religione dell’Altro intesa come essenza
intrinseca, immutabile, sottratta alla storia e al cambiamento.
L’islamofobia, a sua volta, è veicolata e rafforzata dal lessico
degradato dei media, anche mainstream.
Per parlare dell’Italia, un fenomeno semantico in apparenza innocente, se non
inconsapevole, è l’abuso di “islamici”, termine 
pass-partout che ha sostituito
il più corretto “musulmani”. Non per caso questo lemma polisemico, che permette
l’amalgama con “islamisti”, da noi è entrato nell’uso corrente dopo gli
attentati dell’11 settembre 2001.
Per parlare dell’attualità, penso che l’affaire del velo e quello, più recente, del burkini riassumano
perfettamente il senso di ciò che continuiamo a chiamare islamofobia. Del primo
ho scritto ampiamente nel volume La
guerra dei simboli. Veli postcoloniali e retoriche sull’alterità
(Dedalo, Bari
2005) e anche in Les dérives de
l’universalisme
.
Ethnocentrisme et islamophobie en France et en
Italie
(La
Découverte
, Paris 2010).
Dell’uno e dell’altro parlo in un saggetto recente
che si può trovare in rete: Il corpo
delle altre, tra
affaire del “velo” e
farsa del burkini,
 
    “Dialoghi
Mediterranei”, n. 22, nov. 2016,
http://www.istitutoeuroarabo.it/DM/ilcorpodellealtretraaffairedelveloefarsadelburkini/

ProMosaik
preferisce parlare di razzismi invece che di razzismo, visto che considera il razzismo
è un fenomeno complesso e variegato. Che ne pensa?

Io, al contrario, preferisco parlare di razzismo, al singolare. Ma forse,
preliminarmente, conviene chiarire cosa intendiamo per razzismo. Secondo la mia
definizione, esso è « un sistema d’idee,
discorsi, simboli, comportamenti, atti e pratiche sociali che, attribuendo a
gruppi umani e agli individui che ne fanno parte differenze naturali, quasi
naturali o comunque essenziali, generalizzate,
definitive, giustifica, legittima, persegue e/o realizza ai loro danni
comportamenti, norme e prassi di svalorizzazione, stigmatizzazione,
discriminazione, inferiorizzazione, subordinazione, segregazione, esclusione,
persecuzione o sterminio»
(La Bella, La Bestia e l’Umano. p. 20).  
A mio parere, il fatto che il razzismo sia complesso e
variegato, che assuma forme molteplici, che sia un fenomeno “a geometria
variabile” non ne mette in discussione il carattere sistemico e unitario. Come
insegna la lunga e tragica storia dell’antisemitismo – modello emblematico
anche del razzismo attuale – qualunque gruppo umano può essere razzizzato (o razzializzato) quindi
stigmatizzato: indipendentemente dalla sua “visibilità” fenotipica e
perfino dalle peculiarità culturali e sociali. In realtà, i medesimi repertori,
gli stessi dispositivi, pur provenienti da filoni molteplici, nel corso del
tempo sono stati, e sono tuttora, costantemente ri
mobilitati per colpire i più diversi soggetti razzizzati, qualunque sia la loro
provenienza, religione, nazionalità… Basta dire che nella geometria variabile
del neo
razzismo italiano il
ruolo di capri espiatori e di bersagli di campagne allarmistiche è stato
attribuito, di volta in volta, anche agli albanesi, agli “slavi”, ai romeni…