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Cosa si nasconde dietro la rosa di un “Bangla”?

27 Febbraio 2017

Palazzi milanesi della famiglia Gucci, società rumene e operazioni di sorveglianza delle moschee. Quando compriamo una rosa per strada da un “bangla” (che magari è del Pakistan) c’è un po’ di tutto questo

«Capo, venti euro tutte rose!». Lo avrà detto un’altra trentina di volte in questo sabato sera. Lui o qualcun altro come lui. In Porta Romana, in corso Como, all’Arco della Pace. Non ha ancora finito la frase che già sul suo viso si intravede una smorfia di delusione per il rifiuto categorico del “capo”. «No grazie» gli rispondiamo quando va bene. «No sparisci» quando va male, magari condendo il tutto con epiteti e sarcasmo non proprio gradevoli.

Li chiamiamo “Bangla”. Un po’ in tono dispregiativo, un po’ perché non conosciamo la geografia e nemmeno ci interessa colmare questo vuoto. Vengono da Pakistan, Sri Lanka, India e sì, certo, anche Bangladesh. Camminano per le strade delle nostre metropoli e vendono rose a San Valentino (e tutto l’anno), mimose a prezzo di saldo per l’8 marzo, istantanee fotografiche sgranate ai ragazzi che festeggiano la laurea nei locali, cartine e filtri per i fumatori con problemi di memoria che si sono dimenticati a casa la materia prima. I “bangla” sono insistenti, non demordono, dei piazzisti dal talento innato che sognavano di fare un altro mestiere. Come quelli che sono arrivati negli anni ottanta-novanta, prima che “immigrato” diventasse una brutta parola, che l’italiano ora lo masticano alla grande – qualcuno s’è pure fatto la partita Iva ed è a tutti gli effetti imprenditore. Che lavora, che produce, che fa affari.