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USA fuori dal TPP, cosa cambia per la Cina

30 Gennaio 2017

Il gigante asiatico non crede ai suoi occhi: un’occasione d’oro, ne parliamo con Luigi Bonatti

Quando il nuovo Presidente in carica degli Stati Uniti d’America Donald Trump ha firmato l’ordine esecutivo che avviava il processo di uscita degli USA dal TPP (Trans-Pacific Treaty) gli analisti e i quadri del PCC (Partito Comunista Cinese) di sicuro non avranno creduto ai loro occhi. Tuttavia, all’iniziale stupore, si è subito sovrapposto lo spirito da ‘vecchia volpe’ che ha sempre contraddistinto i funzionari cinesi di ogni epoca. Il risultato è una cautela che sotto il Governo di Xi Jinping sembra proprio essere la parola d’ordine. È altresì chiaro che l’uscita degli USA dal TPP apre le porte all’entrata della Cina ma soprattutto spiana la strada per la creazione di un patto commerciale che tenga insieme tutti i Paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico. Sì, perché il TPP non era l’unico patto esistente in quell’area oceanica e la Cina lo sa bene, perché ne fa parte. La prima di queste unioni commerciali è la RCEP (Regional Economic Comprehensive Partnership) che comprende sedici Paesi del Sud-Est Asiatico più Corea del Sud, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, India e ovviamente Cina, con l’esclusione, quindi, degli Stati Uniti. La seconda è l’APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) e comprende Australia, Brunei, Canada, Indonesia, Giappone, Corea del Sud, Malesia, Nuova Zelanda, Filippine, Singapore, Thailandia, Stati Uniti, Taiwan, Hong Kong, Cina, Messico, Papua Nuova Guinea, Cile, Perù, Russia e Vietnam.
L’entrata della Cina all’interno del TPP, dunque, è un’ipotesi più che concreta e l’arringa sarebbe oltremodo convincente. “La Cina non può prendere il posto degli Stati Uniti per varie ragioni”, ci spiega il Professor Luigi Bonatti, docente di Politica Economica presso l’Università di Trento. “La prima è strutturale e di fondo. Gli Stati Uniti assorbono la produzione di molti Paesi compresa la Cina. Quest’ultima ha una situazione strutturale diametralmente opposta. Ha basato il suo modello di crescita sui mercati esteri. Non potrà mai sostituire gli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno svolto per molti la funzione di consumatori di ultima istanza. Hanno assorbito produzione di altri Paesi consentendo all’industria manifatturiera di diversi nazioni di espandersi. La Cina invece non si trova in questa situazione, è lei che ha bisogno che il mercato americano sia aperto. Questa, in fondo, è la prima preoccupazione della Cina, cioè che gli Stati Uniti non siano più aperti ai suoi prodotti”.  La Cina potrebbe, però, rassicurare tutti i Paesi membri del TPP sulla sua permanenza e soprattutto sulla sua affidabilità: “gli Stati Uniti di Trump (sebbene sia presto per dirlo) mostrano un atteggiamento, nei confronti del resto del mondo, col quale tendono ad usare il proprio potere in modo del tutto spregiudicato. Mentre la Cina ha una leadership che si muove su un’ottica di lungo periodo, Trump ha delle scadenze, deve far vedere che ottiene subito qualcosa. Non ti dà affidabilità sul lungo periodo. Se oggi a Trump fa comodo fare un patto con Putin domani potrebbe fargli comodo venir meno a quel patto e farne un altro. I cinesi indubbiamente hanno dimostrato di avere una notevole quantità di leadership, merito anche di un sistema a partito unico”. La Cina potrebbe dire che gli USA restano soltanto quando gli accordi li favoriscono economicamente, mentre essa è pronta a mettere in campo delle politiche economiche ‘win-win’ in grado di far segnare il segno ‘più’ a tutte le economie del patto, in proposito Bonatti è più cauto e afferma che tuttavia “la Cina è fra i Paesi che hanno più da perdere dalla chiusura del mercato americano, quindi anche se il TPP non li riguarda direttamente è chiaro che la Cina è preoccupata dalle minacce che Trump lancia di chiudere i mercati e imporre dazi sulle merci cinesi”.