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Stati Uniti e la sfida dei rapporti con Israele

30 Dicembre 2016

Le ultime carte dell’amministrazione Obama, il passato ma anche le mosse del nuovo presidente

La nomina del ‘falco’ David Friedman a nuovo ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, la volontà manifestata da Donald Trump di spostare la rappresentanza diplomatica USA nello Stato ebraico da Tel Aviv a Gerusalemme e, da ultimo, l’astensione di Washington sulla mozione ONU di condanna agli insediamenti israeliani nei territori occupati hanno concorso a riportare il tema dei rapporti fra Stati Uniti e Israele al centro dell’attenzione. Negli auspici dei fautori di un rapporto solido fra i due Paesi, l’arrivo alla Casa Bianca del nuovo Presidente dovrebbe tradursi in un benefico ritorno al passato e in una chiara inversione di tendenza rispetto agli anni difficili dell’amministrazione Obama. Il nuovo dinamismo di Mosca in Medio Oriente, il peso assunto dall’Iran in un ‘arco di crisi’ che si estende dal Libano all’Afghanistan, il timore di un terrorismo sempre più aggressivo sono tutti elementi che, in questa prospettiva, giustificherebbero la ricostituzione di un legame entrato in crisi con l’insediamento dell’amministrazione uscente e che avrebbe visto il suo momento più basso nel criticato discorso del Primo Ministro Netanyahu di fronte al Congresso nel marzo 2015.
La ricostituzione di questo legame appare, tuttavia, tutt’altro che facile. Il voto in sede ONU, sebbene riconducibile alla posizione di un’amministrazione giunta ormai ai suoi ultimi giorni, rappresenta un segnale eloquente delle fratture che, sul dossier israeliano, attraversano la vita politica statunitense. Il rapporto ‘organico’ fra Washington e lo Stato ebraico è un prodotto del clima particolare della guerra fredda, quando Israele – dopo la guerra dei sei giorni (1967) – si impone come il solo alleato affidabile dell’Occidente in una regione sempre più soggetta all’influenza di Mosca. In questo contesto, interessi di sicurezza comuni cementano un rapporto che, proprio con il venire meno della minaccia sovietica, inizia a mostrare le prime difficoltà. In questa prospettiva, gli sforzi di George H.W. Bush prima, di Bill Clinton poi di promuovere una soluzione duratura del conflitto israelo-palestinese riflettono la volontà di disimpegnare gli Stati Uniti da un teatro la cui rilevanza è vista in declinano e che, alla luce dei cambiamenti che lo interessano (primo fra tutti l’emergere di nuovi soggetti politici), appare sempre più difficile da gestire con gli strumenti sino allora utilizzati.
L’amministrazione Obama e la sua politica di ripiegamento hanno portato questa logica alle estreme conseguenze. Latente negli anni in cui Hillary Clinton ha retto la Segreteria di Stato (2009-13), l’azione di disimpegno si è accentuata dopo la sua sostituzione con John Kerry. La reazione dei vertici israeliani da una parte, l’accelerazione del processo di sdoganamento dell’Iran ‘moderato’ di Hassan Rouhani dall’altra hanno contribuito, a loro volta, a complicare una dialettica già in sé non semplice. Dietro la questione degli insediamenti nei territori occupati, si cela, infatti, quella non meno delicata del ruolo di Israele nel quadro della politica mediorientale di Washington e del costo che ha, per gli Stati Uniti, l’alleanza con lo Stato ebraico. Come osservano da tempo i suoi critici, al di là dei costi materiali, la ‘cambiale in bianco’ firmata da Washington a favore di Tel Aviv limita troppo la libertà d’azione degli Stati Uniti nel mutato scenario internazionale e li pone in una posizione sfavorevole agli occhi di larga parte del mondo arabo senza che ciò si traduca in benefici tangibili, né in materia di sicurezza, né di coinvolgimento nei delicati equilibri della regione.
Anche se diversi segnali sembrano indicare l’intenzione dell’amministrazione Trump di ricucire gli strappi nel rapporto con Israele, le considerazioni appena svolte non perdono il loro peso; a maggior ragione per un Presidente che, se da una parte promette di ‘fare l’America nuovamente grande’, dall’altra non ha mai nascosto favore con cui guarda a una politica di détente che presenta diversi punti in comune con l’‘understretching’ del suo predecessore. Come nel caso dei rapporti con la Russia e con la Cina, nel campo dei rapporti con Israele Donald Trump appare prigioniero della contraddizione che esiste fra le ambizioni di una politica ‘muscolare’ e i costi che essa comporta. Tornare a onorare la vecchia ‘cambiale in bianco’ significherebbe, per Washington, invertire la rotta seguita in questi anni non solo nei confronti lo Stato ebraico, ma del Medio Oriente in generale. Una soluzione della crisi siriana che penalizzi troppo gli interessi statunitensi potrebbe rappresentare un incentivo muoversi in questa direzione. Questa prospettiva aprirebbe tuttavia, per l’amministrazione Trump, scenari in larga misura inattesi, anche alla luce della scarsa attenzione sinora mostrata dal tycoon newyorkese il teatro mediorientale e per la sue complesse dinamiche.