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Egitto, il caso Regeni e il peso (inscalfibile) del regime nel mondo

25 Gennaio 2017

A un anno dalla scomparsa del ricercatore, al Sisi è protetto da Putin e Trump. La Merkel vuole incontrarlo. L’Italia è il primo partner commerciale Ue. Eppure Amnesty denuncia un «boom di torture e sparizioni».

Alla vigilia dell’anniversario, il 25 gennaio 2017, a 12 mesi dalla scomparsa di Giulio Regeni al Cairo, anche il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi si è schierato con Donald Trump. D’altra parte si fa armare dal Cremlino, oltre che dagli Usa, e se la intende parecchio bene con Vladimir Putin: suo alleato nel tentativo di accaparrarsi in Libia, attraverso il generare Khalifa Haftar da loro stipendiato, l’area di influenza della Cirenaica.

IL PRIMATO ITALIANO. Al Sisi, generale del colpo di Stato del luglio 2013, è anche tra i primi interlocutori dell’Arabia saudita, che aveva staccato il rubinetto al governo Morsi della Fratellanza musulmana e lo ha foraggiato per il golpe e dopo, come ai tempi di Hosni Mubarak. Prende miliardi dagli Usa (anche questa una tradizione) per il suo ruolo di sponda e contenimento con Israele. E in Europa resta un partner di punta, in primo luogo, con l’Italia: il primo Paese dell’Ue e il terzo al mondo per accordi bilaterali, commerciali ma non solo (si veda il concordato per riprendersi i migranti espulsi), con l’Egitto.

QUESTIONE DI CONVENIENZA. In questa cornice diventa più chiaro l’atteggiamento elusivo del regime militare del Cairo verso il governo e gli inquirenti di Roma che da un anno ormai gli chiedono materiale e spiegazioni sul caso irrisolto dell’omicidio Regeni: con i soldi degli Usa, della Russia, dei sauditi e adesso anche un prestito del Fmi, l’Egitto può vivere anche senza fare affari con l’Italia. È il nostro Paese, nonostante i molti indizi che le torture fino alla morte sul giovane ricercatore siano un omicidio di Stato, ad aver bisogno del Cairo per far lavorare suoi diversi grand commis delle compagnie statali e parastali.