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Nuove forme di schiavitù e responsabilità della ‘vecchia’ Europa

23 Dicembre 2016

Realtà di frontiera, prassi e forme di dipendenza personale. Uno sguardo alla tutela nell’ordinamento italiano

Il 29 novembre, l’Associazione per i Diritti Umani dell’Andalusia (APDHA) ha avviato una campagna di denuncia, «La injusticia a la espalda» («L’ingiustizia sulla schiena») a tutela delle donne marocchine vittime di abusi e trattamenti degradanti da parte delle autorità di polizia frontaliere di Marocco e Spagna.
Della realtà geopolitica spagnola si parla poco… In ogni caso, con minore entità rispetto all’attualità di altri Stati vicini (soprattutto Germania, Francia e Regno Unito). Forse non è un caso, trattandosi di un Paese che ha fatto dei respingimenti oltre frontiera un fiore all’occhiello della sua politica di accoglienza.   Al confine con il Marocco, tra la provincia di Tetuàn e l’enclave di Ceuta e Melilla, le ‘porteadoras’ (‘portatrici’) frontaliere, oltre 7000 donne marocchine di diversa età, sono sfruttate per la cosiddetta «movimentazione manuale» della merce, ossia il sollevamento e trasporto di enormi carichi (tra i 60 e i 90 kg) imballati di merce di vaio genere, dai vestiti ad articoli di ferramenta. Si muovono a piedi dalla loro abitazione ai depositi, guadagnano in media 8 euro a giornata in proporzione al peso dei carichi effettuati. Gli abusi, sia da parte dei ‘sorveglianti’ che degli agenti, sono quotidiani: percosse, lesioni, privazioni di servizi essenziali, abusi sessuali, soprattutto a danno delle più giovani). Nei tempi morti, in attesa sul lido di Tarajal, le portatrici non hanno accesso a servizi igienici né ad acqua potabile. Uno studio di diritto tributario del 2010, proveniente dall’Università di Granada, calcola che circa la metà dei carichi che partono da Ceuta è effettuato con questo sistema, con un profitto superiore ai 405 milioni di euro. La Guardia Civil, da parte sua, deve asicurare due principali condizioni: “Ordine pubblico e sicurezza, nonostante in più occasioni si sconfini nel soccorso umanitario”.
Nonostante il ‘commercio atipico’, ossia il contrabbando che si regge sul sistema di sfruttamento delle donne, sia dannoso all’economia nazionale marocchina, le popolazioni impoverite del Nord, vittime delle discriminazioni subite sotto il governo di Hassan II, trovano in esso una fonte di sostentamento malgrado il prezzo pagato in termini di diritti umani. Evitare le rivolte generate da una potenziale repressione di questo mercato servirebbe anche a conferire un’‘immagine di ‘stabilità’’ del governo marocchino rispetto a i rapporti politici con l’esterno e allo “sguardo impassibile delle autorità di Ceuta, Marocco, Spagna e Unione Europea”, denuncia Cristina Fuentes, ricercatrice dell’équipe di APDHA.
Peccato che la Spagna, una democrazia europea, dal 1978 sia dotata di una Costituzione che prevede, all’Articolo 15 del Capo II (Titilo I), che: «Tutti hanno diritto alla vita e alla integrità fisica e morale, senza poter essere in alcun caso sottoposti a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti». Si tratta, né più né meno, di una mutuazione dell’Articolo 4 della Dichiarazione universale del 1948: «Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù. La schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma». Nell’omissione di ogni responsabilità politica, l’unica voce che ascoltiamo è quella degli agenti della Guardia Civil preposti alla tutela dell’ordine pubblico, mentre il flusso di merci (e di persone) segue il suo corso senza troppi intoppi.
A che punto sono le democrazie occidentali con il fenomeno della riduzione in schiavitù e della tratta di persone? Quali le forme moderne di dipendenza personale? I fenomeni di sfruttamento e i trattamenti degradanti destinati alle persone interessano la realtà e la coscienza politica di tutti i Paesi dell’Unione. Volgendo lo sguardo all’Italia, prima di accennare alla riforma del 2003 in materia di schiavitù e traffico di esseri umani, sarà necessario un breve excursus.
Il Codice Zanardelli del 1889, all’Art. 145, puniva con la reclusione dai dodici ai venti anni la «schiavitù o altra condizione analoga». La disposizione poneva non pochi problemi interpretativi: ricomprendere in essa situazioni di fatto andava contro i principi di determinatezza e tassatività della legge penale. Tuttavia, in forza dell’obbligo di attenersi ai soli casi tipizzati dall’ordinamento, risultava punibile la sola condotta atta a integrare il plagio, connotato dalla «soggezione» psicologica, lasciando impuniti i casi di schiavitù ‘di fatto’ poiché mancava una definizione legislativa.
Con il Codice Rocco, il 145 si converte in Art. 600 restando invariato nel contenuto, ma è affiancato dal 603, che recita: «Chiunque sottopone una persona al proprio potere, in modo da ridurla in totale stato di soggezione, è punito…» e si riferisce ai casi di plagio. Le due ipotesi in oggetto erano speculari: mentre l’art. 600 prevedeva una riduzione fisica in schiavitù del soggetto passivo, l’art. 603 ne considerava la personalità annullata tramite un’aggressione della sfera psichica.
Il delitto di schiavitù, malgrado l’appiglio definitorio della Convenzione ginevrina del 1926, rimaneva a uno stadio virtuale: l’ordinamento non ha mai riconosciuto lo status di schiavo, ma ciò provocava un ‘vuoto’ di protezione. L’entrata in vigore della Costituzione, che pone l’accento sui diritti inviolabili (Art. 2) e sulle esigenze di conformità alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute (Art. 10 comma primo), era in sé una spinta a mutare prospettiva. Sul fronte del diritto interno, le prime novità interpretative giungono da una sentenza della Corte Costituzionale (6 agosto 1981, n. 96), che dichiara il plagio costituzionalmente illegittimo per eccessiva genericità e definisce la «condizione analoga» alla schiavitù come quella «in cui sia socialmente possibile, per prassi, tradizione e circostanze ambientali, costringere una persona al proprio esclusivo servizio» (e distinta, quindi, dal plagio, per il quale era richiesta una «conculcazione dell’interno volere»). La sentenza restituisce un margine di certezza agli articoli 600, 601 e 602 («Riduzione in schiavitù», «Tratta e commercio di schiavi» e «Alienazione e acquisto di schiavi»), a tutela di «tutti quegli individui che (…) pur non perdendo nominalmente lo status di soggetti dell’ordinamento”, sono ridotti sotto la signoria esclusiva di chi “ne fa materialmente uso, ne trae frutto o profitto o ne dispone».
Peraltro, la Cassazione Penale continuerà a insistere sul vuoto di tutela prodotto dallo «stato» di schiavitù (un’ipotesi concretamente non configurabile, data la mancanza di un istituto interno corrispondente) e in parte colmato dalla «condizione» ad essa analoga. Queste incertezze si riflettono in diverse sentenze anteriori alla riforma del 2003, che, in merito a situazioni analoghe alla schiavitù, definiscono quest’ultima (ossia la schiavitù di fatto) in vario modo, secondo un’interpretazione elastica. A titolo di esempio, una parte della dottrina giuridica ha fatto rientrare la cessione di neonato, dietro pagamento di una somma a scopo di adozione, tra i casi di condizione analoga, vedendo in quella condotta un atto di violenza diretto contro l’ “essere persona” del bambino degradato ad oggetto (Dogliotti 1991). La previsione di casi specifici, se da un lato ha attenuato l’indeterminatezza del sistema (pensiamo alla Legge n. 269/98 contro la prostituzione minorile), non poteva però estinguere la lacuna normativa.