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L’ultima sfida di Obama a Israele: “La soluzione sono i due Stati ”

28 Dicembre 2016

Oggi il discorso di Kerry sul conflitto. E Netanyahu lavora con Putin

Rischia di accelerare la crisi internazionale generata dalla risoluzione Onu che definisce illegali i nuovi insediamenti israeliani nelle zone occupate, il cui passaggio è stato reso possibile dall’astensione statunitense voluta da Barack Obama in Consiglio di sicurezza. A gettare benzina sul fuoco potrebbe essere il discorso col quale il segretario di Stato Usa oggi illustrerà la road map per la pace in Medio Oriente messa a punto dall’amministrazione uscente a poco più di tre settimane dalla fine del mandato. L’annuncio è arrivato da Ben Rhodes, vice consigliere per la Sicurezza nazionale della Casa Bianca nel corso di un’intervista al network israeliano «Channel 2». Kerry esporrà un piano onnicomprensivo col quale gli Usa puntano a risolvere il conflitto israelo-palestinese con la soluzione dei due Stati.  
Per il premier israeliano Netanyahu l’annuncio ha il tono di una minaccia per lo Stato ebraico già colpito dalla risoluzione 2334 del 23 dicembre con la quale in Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha decretato l’illegalità di qualsiasi nuovo insediamento nei territori occupati. Il timore di Netanyahu è che Obama punti a incassare dal Cds un sostegno di principio alla creazione di uno Stato palestinese, un passaggio che potrebbe segnare un punto di non ritorno sia sulla questione mediorientale sia nei rapporti tra Israele, Usa e diplomazia internazionale.  
Il premier israeliano starebbe pertanto cercando appoggio tra i membri del Congresso a maggioranza repubblicana e della nuova amministrazione di Donald Trump per impedire ulteriori azioni contro Israele. Ed era stato proprio il presidente in pectore ad esprimersi ieri, come di consueto con un tweet, nel quale diceva che il Palazzo di Vetro è divenuto un club per gente che si ritrova, chiacchiera e si diverte: «Che tristezza!». Ben inteso, quello di Trump non è un attacco all’istituzione in sé che a suo avviso «avrebbe un grande potenziale». È piuttosto un monito rivolto ad alcuni Stati membri e alle loro posizioni su importanti dossier di politica internazionale. Tanto è vero che lo stesso presidente eletto, la scorsa settimana, dopo l’approvazione della «risoluzione della discordia» ha dichiarato: «Per quel che riguarda l’Onu, le cose saranno diverse dopo il 20 gennaio», giorno del suo insediamento.  
Trump stesso era stato colui che aveva cercato tramite l’Egitto di ottenere un rinvio della risoluzione alla vigilia del voto, e in realtà – ed è questa la novità – non solo lui. A mettersi di traverso ci aveva provato il suo amico Vladimir Putin, allertato da Netanyahu in persona una volta che il premier dello Stato ebraico aveva capito che era stata la Gran Bretagna a lavorare in segreto con i palestinesi sulla bozza di risoluzione e aveva fatto pressioni sulla Nuova Zelanda (membro non permanente del Cds) a spingere per un voto celere. Per di più su un documento redatto nelle sue linee guida con il beneplacito degli Usa. Putin ha così dato indicazioni al proprio ambasciatore all’Onu, Vitaly Churkin, di chiedere un rinvio del voto, trovando però l’ostruzionismo dei membri occidentali e dei Paesi sponsor della risoluzione.  
Un gioco a parti invertite rispetto alle tradizionali dinamiche che hanno caratterizzato sino ad oggi il dossier israelo-palestinese al Palazzo di Vetro. E che vedono ora una convergenza parallela di Russia e Israele in virtù – spiegano fonti ben informate – degli accordi strategici che legano i due Paesi in Siria.  
Nel mirino del governo israeliano è finita ora la conferenza sul Medio Oriente promossa dalla Francia per il 15 gennaio a Parigi, e definita dal ministro della Difesa israeliano, Avigdor Lieberman, come un «processo Dreyfus» (dal nome dell’ufficiale alsaziano ebreo condannato ingiustamente a fine ’800). «Non è una conferenza di pace, ma un tribunale contro lo Stato di Israele», ha accusato. Il timore è che gli Usa, attraverso la roadmap che oggi Kerry illustrerà possano ottenere un impegno da parte del Cds sul riconoscimento dello Stato palestinese e così presentarsi a Parigi per incassare un risultato che rimetterebbe in discussione gli equilibri regionali e renderebbe ancora più complesso il quadro delle relazioni globali.