General

Carceri, armi spuntate contro la radicalizzazione

25 Dicembre 2016

Il fondamentalismo prolifera grazie alla esclusione sociale. Garantire la libertà religiosa può contrastarlo. Ma non senza un’assistenza qualificata. Che spesso le carenze croniche del sistema non permettono.

Marginalità, esclusione sociale e infine carcere: i luoghi in cui crescono i nuovi attentatori fondamentalisti stanno cambiando e ora le prigioni, sovraffollate, dove covano rabbia e frustrazione, e all’interno delle quali si mischia ogni forma di violenza – sopruso, criminalità, estremismo religioso – sembrano diventate uno dei centri di reclutamento favoriti dal fondamentalismo. È di certo una religione spuria quella che alleva i nuovi militanti, autentici o semplici imitatori dell’Isis di al Baghdadi, un coacervo di convinzioni spesso poco ortodosse che parlano di vendetta, di sangue. È questo anche il caso dell’attentatore di Berlino, Anis Amri, entrato appunto in contatto con il radicalismo a sfondo religioso nelle carceri siciliane dove è rimasto per alcuni anni per poi far perdere le sue tracce.

CONTROLLI CRESCENTI NELLE MOSCHEE CLANDESTINE. I luoghi di preghiera improvvisati, le moschee ‘clandestine’, o a volte riconosciute, sono al contrario sempre più controllate, in parte dalle forze di sicurezza, in parte ormai dagli stessi imam che prendono le distanze dai loro confratelli più estremisti o lanciano l’allarme quando individuano personalità pericolose. Anche le comunità di fede o tradizione musulmana cercano spesso di rendere nota la loro estraneità di fronte a episodi efferati. Da una parte temono ritorsioni, dall’altra non si riconoscono nel gesto nichilista estremo che cancella forme di convivenza ormai acquisite (il caso dell’attentato di Nizza del 14 luglio scorso è il più clamoroso: vi trovarono la morte infatti una trentina di musulmani, cioè in gran parte di francesi di fede islamica).

SEMPRE PIÙ CONDANNE DAGLI IMAM. E poi ci sono accordi come quello che la Francia ha stretto con il Marocco, per la formazione di imam che siano lontani da una visione fondamentalista. Da non sottovalutare, inoltre che, nel corso dell’ultimo anno, si è assistito a un salto di qualità nella critica e nella condanna sollevate dalle comunità musulmane europee contro gli attentatori più o meno kamikaze che hanno devastato il Belgio, la Francia e ora la Germania. Non più una presa di distanza formale, ma una condanna assoluta per quella che da molti viene giudicata una sorta di perversione diabolica dell’Islam, un’eresia. Qualcosa si è visto l’estate scorsa, il 26 luglio, quando vicino Rouen, nella parrocchia di Saint Etienne du Rouvray, è stato ucciso in chiesa padre Jacques Hamel, sacerdote amico da sempre dei musulmani della regione che infatti ha partecipato in massa alle sue esequie separandosi così, in modo pubblico, dal fondamentalismo marcato Isis.

Tutto questo complica non poco il problema del proselitismo da parte dei gruppi radicali; il giornale cristiano libanese L’Orient le jour, attento osservatore del mondo arabo, qualche anno fa, quando l’Isis cominciò a diffondere le immagini delle raccapriccianti esecuzioni che metteva in atto, parlò di una strategia costruita sulla «pornografia della violenza». Non a caso l’attentatore di Nizza, Mohamed Lahouaiej Bouhlel, si nutriva di questo materiale, aveva trascorso anche lui un periodo in prigione ed era a tutti gli effetti noto nella sua stessa comunità,nel suo quartiere e fra i suoi vicini di casa, come un emarginato. Anche la Chiesa, che vanta una ramificata presenza di cappellani e volontari nelle carceri, ha affrontato il tema della radicalizzazione nelle prigioni.

IL VERTICE EUROPEO DI GIUGNO. Già nel giugno scorso, un nutrito gruppo di sacerdoti cattolici che operano nei penitenziari, insieme a cappellani di chiese ortodosse e protestanti e operatori pastorali di fede musulmana, con rappresentanti del Consiglio d’Europa, si sono ritrovati a Strasburgo, su invito del Consiglio delle conferenze episcopali europee (Ccee), per concordare una strategia comune. Nel frattempo lo stesso Consiglio d’Europa – organismo del quale sono membri 47 Stati – ha messo a punto delle linee guida «per i servizi carcerari e di libertà vigilata in materia di radicalizzazione ed estremismo violento», segno che il problema è sentito eccome. Il nodo da sciogliere resta quello di condizioni di vita nelle prigioni spesso proibitive alle quali si aggiunge, trovando terreno fertile, la diffusione di propaganda fondamentalista.

IL NODO DELLA LIBERTÀ RELIGIOSA IN CARCERE. Per questo viene sollevata la questione della libertà religiosa nei penitenziari: garantirla significa contrastare il fondamentalismo, instaurare rapporti fra operatori religiosi, volontari e detenuti. Non a caso le linee guida del Consiglio d’Europa, si spiega nel documento redatto dai cappellani dei penitenziari, «incoraggiano la creazione di accordi con le denominazioni religiose al fine di consentire a un certo numero di rappresentanti religiosi approvati, opportunamente formati, di entrare nelle istituzioni; sottolineano l’effetto benefico del coinvolgimento di rappresentanti religiosi, volontari, colleghi e familiari in vista di un efficiente reinserimento di coloro che hanno commesso un reato». Il testo elaborato dall’organismo europeo nel 2016, insomma, è un primo riferimento importante.

Il tema naturalmente non è nuovo: il carcere che trasforma il detenuto, magari arrestato per piccoli reati come furti o danneggiamenti, in criminale a tutto tondo, capace di commettere atti impensabili, con la spinta psicologica derivata da confuse e perverse motivazioni religiose. In questo contesto, osservano i cappellani delle prigioni appartenenti a varie confessioni, «la libertà religiosa nelle carceri è inattuabile senza l’assistenza dei rispettivi rappresentanti religiosi. Questa assistenza è essenziale affinché i detenuti possano esercitare i loro diritti religiosi. Secondo la nostra esperienza, il rispetto del diritto alla libertà religiosa non solo è compatibile con le condizioni di vita in carcere, ma rappresenta anche un fattore decisivo nella lotta contro l’estremismo violento».

LE CARENZE CRONICHE DEL SISTEMA. Personale religioso qualificato, ruolo dei cappellani cristiani nel dialogo con queste persone e gruppi, anche i più violenti, presenza di esponenti qualificati di altre fedi, percorsi riabilitativi, tutela dei diritti fondamentali dei detenuti, denuncia dei maltrattamenti subiti in carcere, capacità di seguire l’iter delle persone più pericolose anche fuori dalla prigione (cosa che, stando alle prime ricostruzioni, non è avvenuta proprio nel caso di Anis Amri): è un percorso complesso quello di cui c’è bisogno, che si scontra con carenze croniche anche dei nostri sistemi penitenziari o più semplicemente con l’incomunicabilità fra i diversi settori dell’amministrazione o fra i Paesi europei e i loro alleati (dopo la strage del Bataclan nella capitale francese si rincorsero le notizie relative al fatto che la Turchia e altri Paesi avevano avvertito – senza esito – Parigi della pericolosità di alcuni individui) .

UN BRODO DI COLTURA PERICOLOSO. Tuttavia, come emerge sempre di più dalla ormai lunga serie di violenze terroristiche fondamentaliste, marginalità sociale e clandestinità, assenza di ogni forma di cittadinanza e di dialogo come comunità musulmane e rappresentanti religiosi islamici (chiamati ad assumere insieme ai diritti anche i doveri) diventano il brodo di coltura migliore per le organizzazioni jihadiste.