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Referendum costituzionale: la Leopolda è la metafora di un paese lacerato

7 Novembre 2016

La Leopolda recentemente conclusa restituisce al paese tutto un’istantanea sui conflitti di un’intera nazione, sulle sue spaccature e sulle sue profonde lacerazioni. Vera e propria rappresentazione di quella che, in retorica, chiameremmo “antitesi”, ovvero accostamento di due elementi tra di essi contrari. Ed è appunto su questo termine, “contrario” – derivato da “contro” – che occorre soffermarsi per capire il significato politico profondo del renzismo.

Il primo elemento di opposizione lo delinea Renzi in persona, quando parla del derby non «tra due Italie, ma tra due gruppi dirigenti» dello stesso partito. Un Pd spaccato tra rappresentanti del Sì e del No al referendum costituzionale, tra D’Alema, Bersani e Speranza da una parte e il presidente del Consiglio e i suoi dall’altra. Tra minoranza dem e maggioranza pro-leader. E quest’ultima ha avuto parole chiarissime, nei confronti della prima: fuori! Un assaggio della democrazia del più forte, dove chi comanda e governa (il partito in questo caso) epura i gruppi dissidenti. Questa sarebbe l’Italia che, oltre a invitare alla porta il pensiero difforme, è quella che dice sì. Giusto per ricordarcelo il 4 dicembre.

«A me ha fatto male il silenzio di chi ha taciuto», ha commentato Bersani, esponente della minoranza interna, data in pasto al pubblico leopoldino dal leader indiscusso (e indiscutibile). «Chi fa il leader deve fare sintesi tra posizioni diverse, invece accende le micce», dice ancora l’ex segretario del Pd. Eppure, traspare l’incapacità del premier di essere davvero rappresentativo di tutti e tutte, laddove da sempre utilizza una logica oppositiva. Logica che poi si riversa in una violenza terminologica, specifica della narrazione renziana, per cui troviamo fenomeni quali il verbo “asfaltare” in luogo di “vincere” (avere la meglio sull’altro, evidentemente, è troppo poco: dà più gusto farne tutt’uno col manto stradale), la larga fortuna del concetto di “rottamazione”, la reductio a categorie zoologiche (ricordate l’intramontabile “gufi”?), categorie professionali usate come insulti dal “professoroni” in poi, fino al post-adolescenziale “ciaone” che qualcuno decise di utilizzare sui social, quando il referendum sulle trivelle stava fallendo e invece di prendere atto della propria vittoria politica – sempre basata sull’astensionismo, si badi – si preferiva insultare e dileggiare l’elettorato percepito come avverso.

In questa contrapposizione tra urla e silenzio, tra gli insulti agli “altri” e nessuno a porre un freno a quella violenza, quindi, si consuma l’ennesima dicotomia della narrazione renziana. “Alla fine ricorderemo non le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici”, diceva Martin Luther King. Deve essere stato drammatico, per Bersani, scoprire che nel suo partito le due cose tendono a sovrapporsi contro chi dissente. Indice di un appiattimento identitario che, tuttavia, è funzionale al mantenimento di un nuovo equilibrio: quello dell’uomo forte a capo di una sinistra che, pur di avere una leadership energica, perde continuamente pezzi, perdendo infine se stessa. Quando ciò non accade, i pezzi che si ostinano a rimanere vengono invitati ad andarsene. E il cerchio si chiude.

La spaccatura del Pd, dunque, diventa metafora delle profonde divisioni del paese. Si può fare un semplice esperimento: basterà scrivere “io voto No” o l’affermazione opposta, per avere la bacheca di Facebook invasa da insulti, polemiche feroci, apparentamenti con le più oscure forze del male, da Casa Pound ai Nazgul di tolkieniana memoria. Un grado di amabilità tale da farci rimpiangere le dispute, sicuramente più vintage, sul conflitto arabo-israeliano o sull’ultimo rigore dato alla Juve. Questa, alla fine, sembra essere l’eredità che il renzismo lascerà all’Italia all’indomani del 4 dicembre, a prescindere da chi vincerà il referendum. Uno scenario che richiama il ventennio berlusconiano, in cui la contrapposizione era – se abbiamo buona memoria – tra “comunismo” e “libertà” e nel quale non si è realizzato quel “cambiar verso”, anch’esso caratterizzante l’universo linguistico del nostro presidente del Consiglio ma evidentemente non del tutto messo in pratica.