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‘Negli Usa lo ‘Stato profondo’ opera allo scoperto’

3 Novembre 2016

Intervista a Philip Giraldi, ex funzionario della Cia sugli Usa

Philip Giraldi è un ex alto ufficiale della Cia specializzato in contro-terrorismo, che durante la sua carriera ha lavorato in Italia, Turchia, Germania e Spagna. La sua è attualmente una delle più brillanti e autorevoli voci critiche nei confronti della politica interna ed estera degli Stati Uniti, che Giraldi prende di mira in veste di analista nei suoi taglienti editoriali per ‘The American Conservative’. Gli abbiamo posto alcune domande riguardo all’attuale coinvolgimento militare degli Stati Uniti nei principali conflitti odierni, il rapporto con gli alleati di Washington e il programma politico dei due candidati in lizza per la Casa Bianca.
Signor Giraldi, in questi giorni stiamo assistendo a una escalation di tensione tra Stati Uniti e Russia riguardo alla crisi siriana, al punto da indurla a sostenere che la guerra nucleare potrebbe essere divenuta nuovamente ipotizzabile. I rapporti tra Mosca e Washington sono mai stati così tesi in passato?
Non da quando la Guerra Fredda è finita, 25 anni fa. La crisi attuale è stata indotta dal governo statunitense e dai grandi media che hanno distorto le informazioni, nonché da qualche errore di giudizio della Russia. Il Congresso dominato dai repubblicani ha giudicato la progressiva ripresa politico-economica della Russia come una minaccia di portata globale, e ha deciso di reagire in maniera estremamente aggressiva per evitare che gli Usa venissero visti come una potenza declinate e ormai troppo debole. L’establishment del Partito Democratico e la Casa Bianca hanno invece abbracciato la dottrina della cosiddetta ‘responsabilità a proteggere’, in base alla quale gli Stati Uniti sono la forza di polizia del pianeta con compiti e responsabilità precise su scala globale. L’approccio diretto preferito dai repubblicani e quello ammantato da considerazioni di tipo umanitario prediletto dai democratici sono parimenti pericolosi. Ironicamente, il popolo statunitense ha espresso la propria forte contrarietà a qualsiasi intervento armato in giro per il mondo ma non ha modo di far valere la propria opinione in sede elettorale. Non a caso, nessuno dei due principali candidati alle prossime elezioni ha definito in maniera chiara ed esauriente quale sarà la sua politica militare e in quali casi prevede di far ricorso alla forza.
Nonostante i cinque anni di guerra non siano riusciti a provocare l’abbattimento di Bashar al-Assad, gli Stati Uniti non sembrano affatto intenzionati a mollare la presa. Qual crede che sia il motivo di tanta ostinazione?
Tutto si basa sulla convinzione che Assad sia alla radice del conflitto, cosa che poteva avere un qualche labile fondo di verità nel 2011 ma non adesso che le altre forze in campo hanno palesato tutta la loro brutalità. Obama ha cavalcato la protesta ma alla fine ha preferito adottare un approccio piuttosto cauto, mentre la Clinton sembra più incline a intensificare la pressione militare su Damasco. Trump invece è fermamente contrario a rovesciare Assad, e ritiene che occorra concentrare gli sforzi per distruggere l’Isis.
Recentemente, le relazioni tra Stati Uniti e Arabia Saudita sembrano esser sensibilmente peggiorate. Obama ha posto il veto sulla legge che autorizzava i tribunali statunitensi a citare in giudizio cittadini sauditi legati alle cause relative all’11 settembre 2001, ma il Congresso ha annullato la sua decisione a maggioranza schiacciante e bipartisan. I sauditi, già irritati per l’accordo sul nucleare iraniano, hanno reagito scaricando centinaia di miliardi di dollari di Us Treasury Bond e minacciando di disinvestire qualcosa come 700 miliardi di dollari nell’economia statunitense. Crede che l’accordo siglato nel febbraio 1945 tra Franklin D. Roosevelt e Ibn al-Saud sia sul punto di cedere?
Non penso che siamo arrivati a quel punto, ma ci sarà sicuramente una radicale revisione del rapporto Washington-Riad. L’Arabia Saudita non è più determinante per la politica energetica statunitense e sia nei media che all’interno del Congresso si sta assistendo a un progressivo distacco da Riad nonostante la Casa Bianca continui ad appoggiare l’inqualificabile guerra in Yemen. Gli Stati Uniti continueranno comunque a fornire un ombrello militare all’Arabia Saudita e alle altre monarchie del Golfo perché considerati fondamentali a controbilanciare le ambizioni iraniane e a mantenere la stabilità in una regione che ancora oggi soddisfa un terzo della domanda di petrolio a livello mondiale.
Dopo il fallito colpo di Stato in Turchia, Erdoğan ha avuto modo di imprimere una forte accelerata al processo di epurazione dei kemalisti, tradizionalmente molto presenti nella magistratura e nelle forze armate, e della fronda legata al predicatore-teologo Fetullah Gülen, che vive tuttora in Pennsylvania nonostante le richieste di estradizione presentate a Washington da Ankara. A diversi mesi di distanza, ritiene possibile azzardare un’ipotesi circa i mandanti del fallito (e strampalato) tentativo di golpe? Ritiene che Washington abbia avuto un ruolo?
Non credo che Washington abbia svolto un ruolo fondamentale ed è possibile che non abbia nemmeno ricevuto preallarmi. I gulenisti sono certamente implicati ma non è emerso nessun nome di alto livello riconducibile alla loro setta. Erdoğan aveva cattivi rapporti con i militari e il golpe è stato indubbiamente una conseguenza diretta di ciò. Gli alti gradi dell’esercito hanno condannato il tentativo di colpo di Stato fin dai primi istanti. Credo anche che Erdoğan fosse a conoscenza delle intenzioni dei golpisti da diversi mesi, anche se la tempistica sembra averlo chiaramente preso alla sprovvista. Ora sta palesemente approfittando del fallito putsch militare per trasformare la Turchia in uno Stato a partito unico dominato da una sola persona: egli stesso. Si tratta di un megalomane.
Nonostante non corra buon sangue tra Obama e Netanyahu, gli Stati Uniti hanno recentemente concesso a Israele 38 miliardi di dollari di finanziamenti in dieci anni vincolati all’acquisto di armamenti di fabbricazione statunitense. Ritiene che esista un nesso tra questa intesa e l’accordo sul nucleare iraniano? Crede che l’esito delle elezioni negli Stati Uniti sia destinato a produrre ripercussioni considerevoli sul ‘rapporto speciale’ tra Washington e Tel Aviv?
Israele continuerà a trarre beneficio dalla ‘generosità’ statunitense a prescindere da cui sarà eletto, per via dell’enorme influenza che lo Stato ebraico esercita sul Congresso e sui media. Hillary Clinton, il cui finanziatore chiave e Haim Saban, sarà completamente asservita agli interessi israeliani. Trump potrebbe esserlo molto meno, ma continuerebbe in ogni caso a sostenere fortemente Israele.