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Gli italiani sono sempre più poveri, un reddito d’inclusione per tutti è ormai una necessità

1 Novembre 2016

Dopo decenni di tentativi anche in Italia è in dirittura d’arrivo una misura a sostegno dei redditi di chi vive sotto la soglia di povertà. I benefici sono tanti, il difetto uno, ma grave: non è una misura universale

Dal 2007 al 2015, il numero di persone in povertà assoluta è aumentato da 1,8 milioni a 4,6 milioni, e l’Italia rimane l’unico paese in Europa, insieme alla Grecia, sprovvisto di una misura universale contro la povertà. Basta questo dato per capire come mail il titolo del rapporto Caritas 2016 sulle politiche contro la povertà, presentato lo scorso 6 ottobre sia “Non fermate la riforma”. Il riferimento è al “Disegno di legge delega in materia di contrasto alla povertà”, passato alla Camera lo scorso luglio e prossimo ad essere definitivamente approvato. Un titolo dal sapore politico, con cui l’organismo pastorale – parte di Alleanza contro la Povertà – intende richiamare l’attenzione del Governo e dell’opinione pubblica sull’importanza dell’attuale momento storico.

Finestra di opportunità

Dopo decenni di tentativi sembra essere giunto anche per l’Italia il momento dell’introduzione di una misura nazionale, universalistica e strutturale di contrasto alla povertà. Il ddl per l’introduzione del reddito d’inclusione (REI), in discussione al Senato, prevede infatti un sostegno al reddito fino a circa 320 euro al mese a livello di nucleo familiare, accompagnato da un piano di inclusione sociale e politiche attive per l’inserimento nel mercato del lavoro. L’utenza iniziale coprirà solo una frazione degli individui in povertà assoluta (meno del 35% secondo il rapporto), con priorità data ai nuclei familiari con figli minori, con disabilità grave, con donne in stato di gravidanza accertata o con persone oltre i 55 anni di età in stato di disoccupazione.

Questa misura costituisce l’ultimo passo di un cammino intrapreso nel 1998, quando l’allora Ministro della Solidarietà Sociale Livia Turco firmò il decreto legislativo che introduceva il Reddito Minimo d’Inserimento, misura sperimentale messa in atto in 39 comuni italiani. Il parlamento non discusse mai i risultati di questo esperimento, ed i successivi governi di centrodestra sostituirono questa misura con la social card, una carta di impianto assistenzialistico (tutt’ora in vigore, con varie modifiche) per l’acquisto di beni di prima necessità.

Le caratteristiche del REI lo configurano come uno strumento radicalmente innovativo rispetto alle precedenti iniziative, in cui al sostegno economico si accompagnano politiche attive per l’inserimento nel mercato del lavoro: un vero e proprio reddito minimo paragonabile a quello di molti altri paesi europei. Le precedenti esperienze insegnano tuttavia che l’apertura di iniziative legislative in questo campo ha sempre incontrato numerosi ostacoli – di natura sia politica che relativa ai finanziamenti – e che modifiche postume a una legge monca risultano difficilmente applicabili a causa del ciclo politico ed al calo di visibilità tematica. Per questo motivo, l’occasione creata con l’approdo in Parlamento del disegno di legge lo scorso luglio rappresenta per il governo una “finestra d’opportunità” da non mancare: l’implementazione di un REI di impronta universale – caratterizzato da un ampliamento graduale dell’utenza raggiunta come proposto originariamente da Alleanza Contro la Povertà – costituirebbe infatti un esempio concreto di politica sociale organica e con una prospettiva a lungo termine.

Al contrario, il presente carattere selettivo non si dimostrerebbe al passo con gli ultimi dati sull’incidenza della povertà messi in rilievo da Caritas, che evidenziano una diffusione sempre più globale della povertà assoluta nel nostro paese. Il dato più rilevante appare quello sull’aumento della povertà nelle famiglie giovani, quasi triplicata rispetto a dieci anni fa e arrivata nel 2015 ad un a tasso di incidenza di oltre il 10%. Questo inusuale trend, confermato dalla generale proporzionalità inversa tra incidenza della povertà assoluta ed età evidenziatasi nel 2015, si può ascrivere ad un più ampio fenomeno di indebolimento e difficoltà di inserimento nel mercato del lavoro delle fasce sociali più giovani.

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L’importanza di superare l’attuale approccio selettivo e di mettere in atto un’implementazione graduale non deriva però solo da considerazioni di opportunità politica e sociale: essa è infatti legata a filo doppio sia al potenziale impatto economico della riforma che alla sua sostenibilità attuativa.

Dal 2007 al 2015, il numero di persone in povertà assoluta è aumentato da 1,8 milioni a 4,6 milioni, e l’Italia rimane l’unico paese in Europa, insieme alla Grecia, sprovvisto di una misura universale contro la povertà.
L’importanza economica della riforma

L’andamento di crescita post-crisi della nostra economia è ancora zoppicante. La partita dello sviluppo economico si gioca su due fronti fondamentali quali domanda interna (ripresa dei consumi) ed occupazione. L’introduzione del REI potrebbe avere un effetto molto positivo in entrambi i campi.

Consumi:
Si consideri la propensione al consumo di una certa famiglia, definita come rapporto tra spesa destinata ai consumi e reddito in un determinato periodo. Se ci concentriamo sulla propensione media al consumo delle famiglie italiane nell’intero 2012, differenziando per decili di reddito, la nostra variabile d’interesse diminuisce col crescere del reddito. Ciò significa che se si vuole stimolare la domanda interna, il trasferimento di reddito più efficace è al decile più povero (a cui appartiene l’utenza a cui il REI è destinato), in quanto verrebbe convertito quasi interamente in consumi.

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Occupazione:
La logica nell’accompagnare il trasferimento di reddito ad un percorso di inclusione sociale sta nel creare un sistema che al riconoscimento di determinati diritti per l’utente beneficiario associ il rispetto di precisi doveri. Tra questi, l’impegno a partecipare a corsi di formazione professionale e accettare proposte di lavoro congrue. Ciò assume particolare rilevanza se si considera che il 30% dei destinatari di questa riforma (se raggiungerà l’universalità) è disoccupato. L’inclusione attiva serve ad evitare che il trasferimento di reddito abbia un effetto passivizzante per l’utente, con l’obiettivo di puntare su un suo completo reinserimento sociale e professionale.

Sostenibilità attuativa

Come sottolineato da Caritas, la pluriennalità della riforma è una caratteristica determinante, perché la differenzierebbe dalle prestazioni sperimentali o una tantum, con logiche emergenziali, già applicate in passato contro la povertà. Inoltre, la pluriennalità rende possibile il gradualismo ad orizzonte finito del programma, che, in termini pratici, impone al legislatore l’assunzione di impegni precisi riguardo il punto di arrivo e le tappe intermedie della messa in atto della riforma.

Assicurarsi il gradualismo di implementazione della riforma risulta importante per varie ragioni: pratiche, sociali ed economiche. Per quanto riguarda le ragioni pratiche, il REI non rappresenta esclusivamente un trasferimento di denaro, ma darà vita ad un sistema di servizi a livello locale, gestiti dai comuni e dal terzo settore con il controllo e la supervisione dello stato. Tale sistema non può operare in modo efficace se in primo luogo non viene dato il tempo ai diversi agenti di adeguarsi ed organizzarsi tra loro per offrire i servizi previsti in maniera efficiente. Passando alle ragioni sociali, è fondamentale che il percorso graduale di estensione del progetto sia comunicata in modo chiaro sia ai beneficiari che ai comuni, in modo da evitare un un’eccessiva mole di richieste in un breve periodo. Infine, il gradualismo è importante economicamente parlando perché permette di diluire l’incremento di risorse, rendendolo meglio sostenibile dalla finanza pubblica. In particolare, secondo il testo approvato alla Camera, dal gennaio 2017, 1,5 miliardi da subito e 500 milioni dal 2018. Come evidenziato dal rapporto Caritas, questa somma renderebbe possibile intercettare solo una quota minima della popolazione indigente (circa un terzo di essa). Per arrivare ad una copertura totale sarebbe quindi necessario che i fondi destinati a questa iniziativa crescessero gradualmente negli anni fino a raggiungere 7 miliardi.

In conclusione, l’auspicio è che la riforma superi l’attuale carattere selettivo e che vada invece a raggiungere – su un orizzonte di alcuni anni – la totalità degli indigenti, in modo da dispiegare al meglio i suoi effetti economici e redistributivi su consumi ed occupazione. Questo permetterebbe al nostro Paese di dotarsi di uno strumento di equità sociale in grado di fargli recuperare finalmente il terreno perso in questo ambito rispetto agli altri stati europei.