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Clima, si apre la Cop22: l’Accordo di Parigi non basta

6 Novembre 2016

Riduzione insufficiente delle emissioni. Dubbi sui fondi. Scarso impegno dell’Ue. L’Accordo di Parigi non accontenta tutti. E la Cop22 si annuncia infuocata

«L’irreversibilità è ormai acquisita»: con queste parole il ministro dell’Ambiente francese e presidente uscente della Conferenza Onu sul clima Segolène Royal ha celebrato l’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi, scattata ufficialmente il 4 novembre, meno di un anno dopo la sua approvazione.
Il traguardo raggiunto, in tempi molto ridotti per gli standard dei trattati internazionali, non mette però la parola fine ai negoziati climatici, ma anzi dà il via a una nuova fase che si preannuncia spinosa quanto le precedenti: la ricerca di un’intesa sulle modalità di applicazione, per cui le divergenze tra Paesi occidentali, emergenti e in via di sviluppo non mancano.
Nella nuova Conferenza sul clima (Cop 22), che si apre il 7 novembre a Marrakesh, si tornerà quindi a discutere di diversi snodi cruciali, politici e soprattutto economici.
Ecco i possibili punti di scontro.

1. Emissioni: la riduzione rischia di essere insufficiente

Fin dai giorni immediatamente successivi all’approvazione dell’Accordo di Parigi, diversi scienziati e ong hanno definito gli impegni di riduzione delle emissioni presentati dai singoli Paesi (i cosiddetti Indc, acronimo di Intended nationally determined contributions) «non abbastanza ambiziosi», ovvero insufficienti per raggiungere l’obiettivo di limitare il riscaldamento globale a lungo termine «ben al di sotto dei 2° C rispetto ai livelli preindustriali», secondo le parole dell’Accordo stesso.
LA SOGLIA DI UN AUMENTO DI 2°. Una lettura di fatto confermata dalla più recente valutazione pubblicata dalla Convenzione Onu sul cambiamento climatico (Unfccc), che ammette che con la sola applicazione degli impegni finora sottoscritti i livelli globali di emissioni di gas serra stimati per il 2025 e il 2030 non diminuiranno abbastanza da fermare l’aumento della temperatura a 2°, e che per i decenni successivi sarà necessario «un tasso di riduzione annuale sostanzialmente più elevato» di quello finora anticipato.
Nell’avvicinamento alla Conferenza di Marrakesh si sono quindi moltiplicati gli appelli da parte della comunità scientifica, dei Paesi meno sviluppati (Ldc) e di quelli più vulnerabili (circa una quarantina, riuniti sotto la sigla V20), per chiedere che gli impegni nazionali siano rivisti al rialzo subito, senza aspettare la scadenza fissata al 2020.
«SCARSA AMBIZIONE». «Gli impatti del cambiamento climatico sono già su di noi. L’azione pre-2020 dev’essere urgentemente rafforzata per fornire la spinta necessaria a portare le nostre economie e politiche verso azioni efficaci, sostenibili», dichiara in una nota del 2 novembre il portavoce dei Ldc, il congolese Tosi Mpanu-Mpanu, aggiungendo che «una spirale ascendente di impegni a ridurre le emissioni, che sia tanto giusta quanto proporzionata al rischio che ci si para di fronte, è vitale».
Ben più dure le parole della Civil society review, un rapporto di valutazione periodico stilato da un gruppo internazionale di ong e sindacati, che afferma: «La scarsa ambizione del pre-2020 renderà le sfide successive più ardue in modi terribili, a detrimento dei poveri, dei vulnerabili, delle future generazioni e delle altre specie, ma presto anche dei privilegiati (…). La scarsa ambizione del pre-2020 aumenterà le chance che gli obiettivi di Parigi non siano semplicemente mai raggiunti».
2. Condivisione dello sforzo: l’Occidente deve fare di più

Sempre secondo la valutazione di alcuni esperti, negli impegni nazionali finora presentati ci sarebbe un ulteriore problema: a fare lo sforzo maggiore sarebbero le economie emergenti asiatiche e quelle meno sviluppate, e non i Paesi occidentali che avrebbero maggiori mezzi di intervento e che hanno una responsabilità storica più accentuata per le emissioni passate.
EUROPA NEL MIRINO. «Più specificamente, per numerosi Paesi, tra cui gli Stati Uniti, l’Ue a 28, Brasile, Giappone e Russia, l’azione promessa risulta ben inferiore a qualsiasi definizione di parte giusta» dello sforzo complessivo, sintetizza la Civil society review, calcolando che, per esempio, l’Europa ha promesso di fare circa un quinto di quanto sarebbe giusto facesse date le sue condizioni economiche e l’inquinamento prodotto nei decenni passati.
L’ATTACCO DEL SUDAFRICA. Anche su questo fronte, la Cop 22 di Marrakesh sarà terreno di aspro confronto, almeno quanto le sessioni dello scorso anno, durante le quali l’ambasciatrice sudafricana Nozipho Mxakato-Diseko non aveva esitato ad accusare i negoziatori occidentali di usare «metodi da apartheid» nei confronti delle esigenze dei più poveri.
3. Finanziamenti: capacità sovrastimata di mobilitare risorse

Nell’Accordo di Parigi, i Paesi più sviluppati si sono impegnati a mobilitare 100 miliardi di dollari all’anno da qui al 2020 in investimenti per aiutare i meno sviluppati nella lotta al cambiamento climatico.
Il 20 ottobre scorso è stata ufficialmente presentata una road map su come questo impegno sarà rispettato «mobilitando finanziamenti da un ventaglio di fonti pubbliche e private», accompagnato da una nota tecnica dell’Ocse con stime cifrate.
Secondo questo documento, i fondi pubblici forniti dai governo occidentali arriveranno a 66,8 miliardi di dollari nel 2020, 26 in più rispetto al 2013-2014, di cui 37,3 provienienti da aiuti bilaterali e 29,5 da programmi multilaterali gestiti dalle Banche di sviluppo.
OBIETTIVO: 100 MILIARDI DI DOLLARI. A ciò si dovrebbe aggiungere il contributo degli investitori privati, stimolato da «uso strategico delle risorse pubbliche e da politiche intelligenti», che nei calcoli dell’Ocse sarà di almeno 24,2 miliardi di dollari nel 2020.
«I Paesi sviluppati sono impegnati sull’obiettivo dei 100 miliardi di dollari», recita il documento, «e sono convinti che lo raggiungeremo».
L’affermazione, però, non ha convinto né i Paesi più vulnerabili né la società civile, che hanno rapidamente bollato le cifre della road map come gonfiate.
Sul fronte pubblico, perché inseriscono nel conteggio anche soldi legati a programmi preesistenti di cooperazione allo sviluppo, aiuti diretti che sarebbero assegnati indipendentemente dai programmi di finanziamento climatico. Su quello privato, perché la capacità di mobilitare investimenti privati è ritenuta «sovrastimata».
4. Suddivisione dei fondi: manca equilibrio tra ‘mitigazione’ e ‘adattamento’

Oltre alla quantità di finanziamenti, a far discutere è anche la loro distribuzione.
Nelle attuali promesse dei donatori, la gran parte dei fondi sono destinati alla cosiddetta «mitigazione del cambiamento climatico», ovvero ai progetti di riduzione delle emissioni in ambiti come la produzione di energia, l’edilizia, i trasporti e le infrastrutture.
Solo una piccola parte è invece destinata all’adattamento, ovvero agli interventi per aiutare le popolazioni a convivere con i mutamenti del clima irreversibili.
PAESI BENEFICIARI INSODDISFATTI. Il divario ha una chiara motivazione finanziaria – dato che quelli di mitigazione sono progetti industriali da cui ci si possono aspettare ritorni economici e in cui è più facile coinvolgere partner privati, mentre quelli di adattamento sono interventi di messa in sicurezza del territorio più o meno costosi ma certo non redditizi – ma lascia insoddisfatti i Paesi beneficiari, per cui i progetti del secondo tipo sono più urgenti.
«Dobbiamo continuare a sostenere le nostre priorità nazionali e l’allocazione dei finanziamenti climatici soprattutto per l’adattamento, ed evitare che i donatori restringano il focus solo sui progetti di riduzione delle emissioni», ha dichiarato il rappresentante delle Maldive durante l’ultimo meeting dei V20, dando le avvisaglie di un nuovo scontro sul tema a Marrakesh.
Mentre anche la Climate action network, la rete di ong che segue da vicino i lavori delle Conferenze sul clima, sollecita la Cop 22 a «mettere in atto passi concreti per azioni di adattamento addizionali» e a spingersi il più vicino possibile a una ripartizione 50-50 dei fondi tra i due tipi di progetto.