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Vivere sotto scorta: le storie taciute dei ‘Saviano di serie B’

23 Ottobre 2016

Cronisti. Sindaci. Testimoni. Pure un cuoco. Sotto protezione come lo scrittore, sono trattati «con meno riguardi». Da Cutrò fino a Cavalli: ecco chi sono. 

A Giuseppe Antoci, il presidente del Parco dei Nebrodi in Sicilia, hanno mirato ai copertoni e all’abitacolo, che essendo blindato ha resistito alle raffiche.
Un attimo di notorietà, poi il silenzio. E la solitudine lassù fra le montagne.
Aicha Mesrar, consigliere comunale marocchina a Rovereto, è fuggita all’estero dopo anni di aggressioni e minacce. Voleva realizzare una moschea, ma l’idea non piaceva a troppi.
Sotto scorta in Italia c’è perfino un bambino di nove anni, figlio di un magistrato nel mirino di un boss. E c’è Mario Caniglia, imprenditore catanese esperto di arance, testimone di giustizia: «Andarmene? No, sono i delinquenti a dover andarsene dalla Sicilia».
SAVIANO SOTTO SCORTA DA 10 ANNI. Si fa presto a dire “sotto scorta”. Roberto Saviano, scrittore e cronista, con gli uomini della scorta convive da 10 anni coltivando la voglia di gustarsi prima o poi «un gelato alla crema e cioccolato» su una panchina nei vicoli a Napoli.
Icona suo malgrado, lo scrittore non ha mai nascosto quanto gli pesi vivere controllato a vista.
Si fa presto a dire scorta. A Casal di Principe vive Marilena Natale, 44 anni, giornalista, che la tutela l’ha rifiutata per anni pur vivendo sotto quotidiana minaccia da parte del clan dei Casalesi.
Proiettili in busta, automobile bruciata, picchiata sotto casa. Ha fatto arrestare chi la minacciava: «Ho detto di no perché non voglio subire restrizioni. Intendo restare punto di riferimento per la gente che mi contatta».
IN CENTINAIA NELLE SUE CONDIZIONI. In Italia – dove “sotto protezione” fino al 2014 risultavano circa 600 cittadini (ma il numero è calato per motivi di spending review) – esistono molti modi di preservare al tutelato gli spazi di quotidiana autonomia.
C’è chi nell’attuale sistema di protezione (che risale al 2002, cioè a dopo l’omicidio del giuslavorista Marco Biagi) intravede perfino una sorta di “logica classista” capace di generare «livelli di qualità e di autonomia non uniformi e a volte calibrati sul ruolo, l’importanza e il livello sociale della persona da proteggere».
Elucubrazioni? Forse. Ma, al di là di Saviano e di pochi altri personaggi pubblici, come vivono “la protezione” i comuni mortali?
Stanno meglio o peggio dei cosiddetti “famosi”? E come se la cava chi la protezione non ce l’ha?
Che sapore ha la quotidianità per gli “altri Saviano”, cioè i giornalisti, gli imprenditori, i commercianti, i testimoni di giustizia sotto scorta che in Italia sopravvivono in solitudine?

Quei cronisti sotto tiro di cui nessuno parla

Tra i cronisti sotto tiro (ma di cui mai si parla) ci sono nomi quasi sconosciuti come Gianni Lannes, direttore del giornale online Terra nostra di Foggia. O Alessandro Bozzo di Calabria Ora. O Angelo Civarella della Gazzetta del Mezzogiorno. O Josè Trovato del Giornale di Sicilia.
A Napoli, Arnaldo Capezzuto ha fatto arrestare i camorristi che lo minacciavano.
E poi Leonardo Rizzo, Agostino Pantano, Angelo Corica, Antonio Sisca e tanti altri, spesso precari e pagati pochi euro a pezzo.
«NON TI SALVA NEANCHE GESÙ CRISTO». Michele Albanese del Quotidiano del Sud i ‘ndranghetisti volevano farlo “zumpare” (saltare) in aria con tutta la macchina.
Lui, che vive a Gioia Tauro ed è sotto protezione, non si pente ma commenta amaro: «Le fonti non mi incontrano più. Mi sento come un appestato. Vivo chiuso tra quattro mura. Mi manca la strada. La mia libertà è svanita».
A Paolo Borrometi, 32 anni, siciliano, direttore di LaSpia.it, il boss che lui poi ha fatto arrestare disse chiaro e tondo: «Non ti salva neanche Gesù Cristo. Il tuo cuore verrà messo nella padella e poi me lo mangerò».
RIMPIANGERE LA PROPRIA SOLITUDINE. Ora Borrometi è sotto scorta, ma continua a raccontare la mafia di Modica. Come Giovanni Tizian, 29 anni, calabrese, che dal 2006 sulla Gazzetta di Modena racconta tra minacce e uomini di scorta il malaffare mafioso in Emilia Romagna.
Storia dura, la sua: quando aveva sette anni, a Locri, la ‘ndrangheta gli ammazzò il papà funzionario di banca.
Sotto scorta c’è anche un attore: si tratta di Giulio Cavalli, 34 anni, l’«Arlecchino scassa-minchia» (la definizione è sua) che sul palcoscenico dà fastidio ai boss che in Lombardia pensavano di poter agire indisturbati. Per lui, tutela dinamica. Cioè, secondo livello. Due uomini armati a far da angeli custodi H24.
Cavalli commenta: «Rimpiango l’atrio di casa, i momenti privati. E la mia solitudine».