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Quante volte ancora deve morire Stefano Cucchi?

4 Ottobre 2016

Perizie, versioni smentite, bugie. Come per Uva e Aldro. E la giustizia pare non arrivare.

Se un gatto ha sette vite, Stefano ha sette morti.
Ora i periti del Gip di Roma hanno detto la loro: il 31enne morto (o ucciso) all’ospedale Pertini di Roma nel 2009 è deceduto a causa dell’epilessia. Una morte «improvvisa e inaspettata».
Questa è l’ipotesi «dotata di maggiore forza e attendibilità».
E per fortuna, perché a guardare le foto che la sorella Ilaria continua a mostrare, quegli occhi lividi e il volto gonfio, verrebbe da pensare a un pestaggio violento. E invece, vedi te la scienza come stupisce.
LA PRIMA MORTE DI STEFANO. Stefano però era morto anche nel 2013: per malnutrizione. Anzi, a essere tecnici, per «sindrome da inanizione». Già, così avevano scritto i giudici.
Ma non è finita.
Un’altra volta Stefano era morto a causa della droga. Che sappiamo non essere un toccasana, ma che difficilmente produce ecchimosi del genere.
«Stefano Cucchi era in carcere perché era uno spacciatore abituale. Poveretto, è morto, e la verità verrà fuori, soprattutto perchè pesava 42 chili. La droga ha devastato la sua vita, era anoressico, tossicodipendente», sentenziò il senatore Ncd Carlo Giovanardi. «Sono migliaia le persone che si riducono in situazioni drammatiche per la droga, diventano larve, diventano zombie: è la droga che li riduce così».
Epilessia, fame, droga. Quante altre volte dovrà morire Stefano Cucchi prima che vengano accertate le responsabilità effettive?

ALDRO UCCISO DA UN «MALORE». Anche Federico Aldrovandi, prima di trovare giustizia, è morto un paio di volte almeno. Per «le sostanze assunte», stabilirono i periti della difesa. Era drogato, anestetizzato, e in quella notte di Ferrara il 18enne non si rendeva conto del «fabbisogno di ossigeno che il suo corpo richiedeva».
Morì anche «per un malore» Federico, dissero al 118 i poliziotti che lo fermarono. Versione riportata anche dalla stampa locale.
Poco importavano le 54 ecchimosi e lesioni in bella evidenza sul suo corpo e la testimonianza dello zio, infermiere all’ospedale della città, che accorso all’obitorio disse di aver trovato il corpo straziato e «tutto storto».
Solo nel 2012 una sentenza stabilì che Federico morì sì, ma non per l’alcool etilico, la ketamina e la morfina, bensì per «eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi» da parte di quattro poliziotti.

Caso Uva, si configura il reato di omicidio preterintenzionale

Nel giorno in cui i periti romani hanno stabilito che a uccidere Stefano è stata l’epilessia, a Milano la procura generale sostiene che a uccidere Giuseppe Uva fu «stress derivante dalla costrizione e privazione della libertà personale». Configurando così il reato di omicidio preterintenzionale e del sequestro di persona.
L’operaio, un semplice «gruista», morì nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Varese dopo essere stato portato nella caserma di via Saffi, nel giugno del 2008.
Affetto da patologia cardiaca, al momento del fermo per strada era sotto intossicazione etilica acuta e da farmaci.

QUANDO GIUSEPPE MORÌ DA SOLO. La prima morte di Giuseppe fu per autolesionismo. Insomma, era morto da solo. 
Durante il fermo aveva sbattuto la testa e il corpo non solo contro le sedie e la scrivania della stanza, ma pure contro gli stivali dei militari. Che avevano pure cercato di ridurre i danni.
«Il collega», raccontarono i testimoni, «frapponeva il suo stivale tra il pavimento e la testa di Uva, per evitare che questi si facesse più male urtando contro la superficie dura del pavimento».
Di cosa è morto Giuseppe ancora la giustizia deve stabilirlo.
La sorella Lucia però, che vide il corpo all’obitorio, ha pochi dubbi: «La prima cosa che ho visto è stato il naso viola», disse. «Poi aveva l’occhio sinistro con una botta di colore blu e la mano destra con una bozza viola. Tutte le gambe tagliuzzate, il ginocchio gonfio. Aveva delle bruciature sullo zigomo destro e sulla spalla destra, come se gli avessero spento le sigarette addosso. Aveva lividi sulla schiena e sul fianco. Poi aveva un pannolone tutto sporco di sangue. Gliel’ho tolto per guardarlo bene. Gli ho aperto le natiche: aveva l’ano fuori e i testicoli irriconoscibili e violacei. Da lì ho capito che mio fratello era stato picchiato e seviziato».

QUEL NASO CHE ‘PARLA’. Il naso. Chissà perché in queste morti il primo dettaglio che parla è proprio il naso.
Anche Paola Regeni ha riconosciuto il figlio Giulio proprio dalla «dalla punta del naso», in quel viso in cui aveva scorto «il male del mondo».
Pure il ricercatore italiano nemmeno trentenne per le autorità egiziane è morto un sacco di volte. Prima in seguito a un incidente, poi a una rapina.
L’Italia giustamente chiede la verità e condanna i depistaggi.
Ma quante volte si deve morire in un carcere, una caserma o in un ospedale italiani?