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Dario Fo, vita e morte di un giullare militante

13 Ottobre 2016

Era borghese, agitatore, anti-clericale. Repubblichino, comunista, infine grillino. Dario Fo, col suo populismo militante, incarna le contraddizioni del Novecento.

Forse la maggiore virtù di Dario Fo resterà quella di aver saputo rappresentare un’epoca, il Novecento convulso e feroce e contraddittorio. Come Pannella si portava addosso quella canzone di Lucio Dalla, i vicoli di Roma con i suoi intrighi, i segreti, le sofisticherie di una politica che oggi è del tutto svanita, così Fo potrebbe rimanere avvolto da un nonsense di (e con) Jannacci, re e cardinali che piangono e il popolo che se ne duole. Quanto poi di populista ci stesse nel popolarismo di uno che, ricevuto il Nobel nel 1997, commentava «Con me hanno voluto premiare la gente di teatro», è questione che va lasciata agli storici, perché quando muore una figura complessa, rappresentativa, serve la decantazione del tempo a separare il grano dal loglio, le cose buone da quelle evitabili (guarda le foto).
LO RIMPIANGE CHI NON LO CONOSCE. Oggi è facile rimpiangere e compiangere il Giullare del Gramelot, molti lo fanno, ma, specie se giovanissimi, senza sapere granché, per effetto trascinamento da conformismo, da risacca social così come nei formidabili anni c’era quella dei tazebao e dei ciclostilati.
Chi era, chi è stato Fo? L’uomo del teatro, il borghese sofisticato delle buone letture e dei musei, con una moglie altrettanto borghese, bella e probabilmente più talentuosa di lui, alla quale comunque dovette moltissimo? L’agitatore culturale con gli occhi fuor dalle orbite, dallo sberleffo caustico che irritava Papa Paolo VI? Il militante di sinistra sempre vicino al lumpenproletariat, ai «dannati della terra» a suon di spettacoli, battaglie, campagne, gesti eclatanti? Tutto di questo, e quando si è tutto di tutto, anche in modo esistenzialmente generoso, si finisce inevitabilmente per arruffare, per andar fuori dalle righe, per prendere topiche clamorose, che la propaganda dell’attuale spaccia per gesti nobili, ma che i posteri, forse, ridimensioneranno – hanno già cominciato – a equivoci non sempre cristallini.
AUTORE DI UNA CAMPAGNA CONTRO CALABRESI. Alle prefiche social, ai ginnasiali che oggi si sfogano in Rete con accenti un po’ strampalati e un po’ ingenui, forse non farebbe male un più che sintetico bigino. Dario Fo fu tra gli artefici, nonché l’autore teatrale, di una campagna demolitoria contro il Commissario Calabresi, ribattezzato «commissario Cavalcioni» con allusione alla finestra da cui precipitò l’anarchico Pinelli alla Questura di Milano nel corso delle prime indagini sulla strage di Piazza Fontana. Per Fo e per Franca Rame non sussistevano dubbi: Calabresi/Cavalcioni era il colpevole, e doveva pagare (pagò, infatti, anche se la sua colpevolezza fu stabilita non dalla magistratura ma dalla «giustizia proletaria»).

Vicini al Soccorso rosso


Dario Fo e Franca Rame negli anni ’60.

La coppia Fo/Rame stava, come scrisse Giorgio Bocca che pure voleva loro bene, «nell’alone del terrorismo» col Soccorso rosso che aiutava, se necessario oltre il lecito, sospetti terroristi; e resterà una pagina nera, una bruttissima pagina l’azione che Soccorso rosso svolse in favore dei tre autori del rogo di Primavalle, Achille Lollo, Marino Clavio e Manlio Grillo, che in una notte d’aprile del 1973 arsero vivi con una bomba incendiaria i due fratelli Mattei, Virgilio, 22 anni, e Stefano, di appena 10.
TERRORISTI FATTI FUGGIRE. Subito si seppe la matrice di quel gesto, ma Soccorso rosso, attivandosi immediatamente, trovava modo di accusare i Mattei di «non avere rispetto neppure dei propri morti», cioè di aver bruciato loro stessi i loro figli e fratelli (lo ricorda Giampaolo Mattei nel suo atroce La notte brucia ancora. Il commando di Potere operaio fu fatto fuggire all’estero, e di fatto nessuno dei tre scontò mai un giorno di condanna. Del resto, disse la propaganda dell’epoca chi era morto? Nessuno, solo «due fascisti».
La logica era quella, e questa identica frase venne attribuita a Fo – che non la ha mai smentita – alla morte del 19enne Sergio Ramelli, un ragazzino che, dopo un calvario di due anni nella sua scuola, venne massacrato a colpi di Hazet 36, una chiave inglese particolarmente pesante, da un commando di Avanguardia operaia soprannominato ‘Brigata Coniglio’. Perché lo fecero? «Per dare un segnale», spiegarono al giudice i colpevoli, matricole universitarie di buona famiglia.
«È MORTO SOLO UN FASCISTA». «Va beh, in fondo è morto solo un fascista», fu sentito dire il futuro Nobel per la Letteratura. Ma Ramelli non era un fascista, era un ragazzino che, nei suoi temi, scriveva cose che oggi farebbero sorridere un moderato, e che si rifugiò in ambienti di destra estrema più per disperazione che altro; gli spappolarono il cervello davanti alla sua casa di viale Romagna, sotto gli occhi della madre, e, alla notizia della sua morte, dopo un’agonia di un mese, il Consiglio comunale di Milano si alzò in standing ovation per un lungo applauso.

Alfiere del gran casino giovanile

(© Ansa) Con Franca Rame a Milano per i 30 anni di Piazza Fontana.

Quella era la temperie, come si suol dire. Una temperie che continuò con la Bologna del ’77, col convegno contro la Repressione che fece domandare a tanti, da Luca Goldoni allo stesso Giorgio Bocca, cosa ci fosse di repressivo in uno Stato che metteva a sua disposizione le proprie strutture per farsele sfasciare dagli esagitati che le occupavano. Ma Fo non se ne diede per inteso, e di quel gran casino giovanile fu alfiere e coscienza civile, invero già stagionata. Scrisse in merito il vicedirettore de la Stampa, Carlo Casalegno, anche lui destinato a cadere sotto il fuoco terrorista: «Il filosofo Guattari ha superato in comicità Dario Fo».
LA LEGGIADRIA DI UN CAVALIERE ERRANTE. Sì, questa era la temperie e la follia di anni che oggi molti rimpiangono, senza neppure sospettarli. E questo fu Fo, che in quell’epoca si stagliava con la leggiadria di un Cavaliere Errante passando di avventura in avventura, di mulino in mulino a vento, di censura televisiva in sapiente vittimismo, e anche di spettacolo in pièce, perché lascia una produzione alluvionale. Non meritevole del Nobel, secondo Montanelli, che se ne disperava in quel suo caustico modo («Ho suggerito al mio amico Mario Luzi di verificare a chi l’hanno dato, e di non darsi più pensiero se non lo vincerà mai»).
Generoso, Dario Fo, di sicuro, ma in un modo arrembante, militante, tentato da populismi che poco avevano a che fare con la tanto sbandierata democrazia, e molto col suo contrario. La sua invettiva, coperta dal velo della satira, poteva essere crudele al limite del razzismo, come ben sa Brunetta, che se ne vide irridere i difetti fisici (un giorno bisognerà pure capire perché il politicamente corretto si estende su tutto e tutti, lasciando scoperta la sola categoria dei nani, maledetti in eterno e sprezzati anche dall’altro santone ‘Faber’ De Andrè, il quale trovava che avessero «il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo»).
DARGLI DEL FASCISTA È PURA IDIOZIA. Sarebbe ingeneroso contestare a Dario Fo la famigerata adolescenza repubblichina, perché a 17 anni sbagliare, più che facile, è inevitabile («Doveroso», diceva sempre Montanelli): e, quella volta, sbagliarono quasi tutti. Dare del fascista a Dario Fo è pura idiozia, ma quello che resta di discutibile è una tensione che lo ha accompagnato per tutta la vita in modo fazioso, condizionandone irrimediabilmente la produzione artistica: questo campione di una aggrovigliata anarchia, se ne va in fama di supporter grillino, vale a dire un movimento fortemente autoritario-esoterico, dal quale ogni tanto sale qualche miasma antisemita, che pare a volte la collisione perfetta tra Evola e Alvaro Vitali. Forse anche in vecchiaia sbagliarsi è inevitabile.