General

Tortora, storia di un perseguitato senza pace

15 Settembre 2016


Trent’anni fa veniva scarcerato Tortora. Ma il suo incubo prosegue ancora oggi. Tra giudici che rifiutano di pentirsi e mascalzoni che si paragonano a lui

Enzo Tortora, stella di prima grandezza del giornalismo e dell’intrattenimento televisivo, diventa di colpo un criminale mafioso per la giustizia e per l’opinione pubblica: la sua storia impossibile diventerà un modo di dire, usurpato da fior di mascalzoni che, appena inchiodati, puntualmente proclamano: «Sono come Tortora, il mio è un nuovo caso Tortora».
POCHE FIRME AL SUO FIANCO. Non è quello che avrebbe voluto la vittima del «più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese», come lo definì uno dei suoi rari sostenitori, Giorgio Bocca.
Poche grandi firme – lo stesso Bocca, Biagi, Montanelli pur tra qualche caduta di stile – proveranno a non perdere la testa di fronte ai furori di una opinione pubblica che invoca il crucifige, col solo Partito radicale di Marco Pannella coinvolto in una durissima battaglia per opporsi alla marea montante di una magistratura i cui protagonisti, lungi dal pagare in alcun modo, faranno tutti clamorosi balzi in carriera, fino a conquistare i massimi ermellini oppure nella pubblica amministrazione.
DARGLI ADDOSSO È FACILE. Dal canto loro, i pentiti menzogneri avranno sorte altrettanto benevola, uno addirittura insignito del “premio della libertà”.
Era una buona compagnia: dare addosso a Tortora è facile, la stampa si scatena, moltissimi opinionisti, come la radical chic Camilla Cederna, dimostreranno carognesca superficialità: «Se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto».
E sono gli stessi che non credono per princìpio alla magistratura e alle istituzioni, che firmano appelli contro lo Stato e i suoi ‘commissari torturatori’. È difficile, in quella temperie, considerare Tortora innocente, e scriverlo. Si rischia di venire contagiati dalle accuse che lo travolgono.
Il calvario: 1.768 giorni dall’arresto alla morte

Il conduttore ha due avvocati di prestigio, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall’Ora, che nel difenderlo si identificano nel dramma del loro assistito oltre i limiti del mandato professionale: quando Tortorà verrà riabilitato, saranno visti piangere come lui, insieme a lui.
Il calvario di Enzo Tortora dura 1.768 giorni, dal quello dell’arresto (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all’Hotel Plaza di Roma) alla fine della sua vita (18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8).
LA VOCE DI UNA RETATA IMMINENTE. Gli italiani scopriranno che possono venire svegliati in qualsiasi momento da un battere alla porta in piena notte, come nei regimi di polizia e portati via, in un incubo senza fondo dove le spirali della vergogna e dell’impotenza sembrano non avere mai fine.
Alla viglia dell’arresto di Tortora, circola tra i cronisti di nera la voce di una retata imminente, con tanto di nome forte, uno della televisione. uno grosso.
Chi? «Uno che sta nelle ultime lettere dell’alfabeto».
L’ARRESTO DAVANTI AI GIORNALISTI. Quella giusta è la“T”. Rintracciano “mister T.”, lo avvertono: lui ironizza, ci ride sopra, attacca e non ci pensa più.
Lo andranno a prendere poche ore dopo. È tutto predisposto, giornalisti e fotografi sono stati avvertiti. Gli mettono le manette, ad effetto; ma ne fa di più la sua faccia stupefatta e sfatta.
Fioccano i “pentiti” che lo azzannano in un delirio di accuse folli: ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell’Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari. Titola il Messaggero: «Tortora ha confessato». Quando, dove?
L’accusa: una partita di droga che il presentatore si sarebbe intascato
.
Tortora con Alberto Dall’Ora.

Nessuno difende Tortora, specie a sinistra: è considerato un reazionario, un rompicoglioni moralista. Un antipatico.
Più avanti si sarebbe detto: un nazionapopolare, col suo Portobello strappalacrime e stracciapalle.
Scriveva su la Nazione del petroliere Attilio Monti in odor di fascismo, ce n’è abbastanza per scordarsi il garantismo, che con gli amici si osserva, coi nemici si cancella.
Quando la madre Silvia si reca in chiesa, trova sempre lo stesso bigliettino, grondante carità cristiana: «Tuo figlio spaccia la droga».
UNA MESCHINITÀ INFANTILE. E dire che tutto nasce da una meschinità infantile, come si racconta nel bel libro di Vittorio Pizzuto Applausi e sputi.
Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, Domenico Barbaro, spedisce alcuni centrini alla redazione di Portobello nella speranza di venderli. Non li vede mai e allora comincia a perseguitare il presentatore con letteracce scritte dal killer Pandico, perché lui è analfabeta.
Un bel giorno Tortora si scoccia: «Se lei continua ad insistere», risponde, «passerò la faccenda all’ufficio legale della Rai».
I centrini non si trovano, il detenuto riceve dalla Rai un assegno di 800 mila lire più per pietà che per altro.
CENTRINI? NO, COCAINA. Barbaro e Pandico si “sdebiteranno” raccontando ai giudici, per bocca del secondo, che i centrini erano un nome in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni che il presentatore si sarebbe intascato imbrogliando i compari.
Sarebbe la prima prova d’accusa: i legali a difesa producono le lettere minatorie del galeotto, ma per i magistrati «a scrivere è un altro Barbaro», un omonimo.
Altra prova considerata definitiva: si trova il nome di Tortora nell’agendina di Giuseppe Puca, detto ”o Giappone’, sicario tra i preferiti di Cutolo. Ma l’agendina è della donna di Puca, il nome, scarabocchiato a mano è ‘Tortosa’ non ‘Tortora’, e corrisponde al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora.
Il prefisso è 0823, «Provate a chiamà, dottore…». Cinque mesi ci mettono, i giudici, a ‘provare’.
Gli accusatori: da un serial killer all’altro

Raffaele Cutulo durante un processo.

Chi sono gli accusatori di Tortora? Il principale è il citato Giovanni Pandico, killer di professione, segretario di Cutolo, il capo della camorra: ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ha tentato senza successo di annientare i parenti: padre, madre e fidanzata.
«Schizoide e paranoico» per i medici, bocca della verità per i giudici.
È il primo, il più meschino, quello che eccita e contagia altri degni compari. Dal 2012 torna libero cittadino.
IL PIÙ APPARISCENTE È MELLUSO. Non migliore è Pasquale Barra, detto ‘o ‘animale’, serial killer delle galere, 67 omicidi in carriera tra cui lo squartamento di Francis Turatello al quale mangia pezzi di cuore: è morto in carcere, sotto regime privilegiato, con uno speciale programma di protezione.
Il più appariscente però è Gianni Melluso, detto ‘il bello’ o ‘cha cha cha’, aspetto di cialtronesca, volgare ricercatezza, da cantante da crociera.
Già libero, è tornato in galera qualche anno fa per sfruttamento della prostituzione.
Da accusatore di Tortora, in carcere viveva come un pascià, amava quando voleva la fidanzata, puntualmente messa incinta e sposata con due giornalisti come testimoni e un meraviglioso completo sartoriale di Valentino.
«L’HO DISTRUTTO A MALINCUORE». Dirà Melluso, ma solo nel 2010, in una intervista all’Espresso: «Lui non c’entrava nulla, di nulla, di nulla, l’ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l’unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie».
Replicherà Gaia, la terzogenita: «Resti pure in piedi».
Un altro che lo accusa di spacciare negli studi di Antenna 3 Lombardia è il pittore fallito Giuseppe Margutti: anche lui, a giochi fatti, ammetterà di essersi inventato tutto per mitomania finalizzata a raccogliere qualche soldo.
Il primo grado: condanna a 10 anni e 50 milioni di multa


Diego Marmo.

Tortora passa per sodale del boss dei boss Raffaele Cutolo.
Accusa risibile, che infatti suscita ironia allo stesso supercriminale: nel carcere dell’Asinara, dove sconta l’ergastolo, ‘don Rafaé’ incontra il presunto colpevole Tortora, nel frattempo diventato europarlamentare.
Il breve dialogo che ne consegue, è surreale: «Dunque, io sarei il suo luogotenente». Poi porge la destra: «Sono onorato di stringere la mano a un innocente».
NESSUN RISCONTRO BANCARIO. La cosa non turba i magistrati, che non si scomodano a disporre alcun controllo, verifica, riscontro bancario (cosa che Tortora li invita espressamente a fare), appostamento, pedinamento, intercettazione (non sono ancora di moda), e, inchiodati alle versioni dei pentiti, tutte tra l’altro discordanti fra loro, costruiscono il loro castello accusatorio.
I sostituti procuratori titolari delle indagini a Napoli sono Lucio Di Pietro, definito ‘il Maradona del diritto’, e Felice Di Persia.
Ottengono dal giudice istruttore Giorgio Fontana 857 ordini di cattura, con 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (in appello, le assoluzioni saranno 114 su 191).
LE INSINUAZIONI DEL PM MARMO. Il processo di primo grado, sempre a Napoli, si apre nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l’arresto di Tortora, e si conclude il 17 settembre 1985 con il conduttore condannato a 10 anni e 50 milioni di multa, ma nel frattempo divenuto deputato radicale al Parlamento europeo.
Il presidente Luigi Sansone scrive una omerica sentenza di 2 mila pagine, in sei tomi, uno dei quali appositamente su Tortora, per il quale ribalta ogni logica di diritto: «L’imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui», quanto a dire l’inversione dell’onere della prova.
Da parte sua, il pubblico ministero Diego Marmo definisce Tortora «un uomo della notte, ben diverso da come appariva a Portobello»; poi insinua che sia stato votato dai camorristi. Ma ammette: «Lo sappiamo tutti, purtroppo, che se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l’istruttoria».
L’appello: la Corte di Napoli smonta il castello accusatorio


Tortora in una delle sue ultime apparizioni, a Napoli.

Non sia mai: Tortora riceve una condanna inevitabile.
Già eletto a Strasburgo per i Radicali, prontamente si dimette da eurodeputato, rinuncia all’immunità e torna in Italia per farsi arrestare.
Nel frattempo è cambiato, ha maturato una consapevolezza nuova, l’impegno totale in favore dei carcerati: «Ero liberale perché ho studiato, sono radicale perché ho capito».
LUI PERÒ È GIÀ MINATO. Passa ai domiciliari, ricorre in appello, non smette di combattere, fino alla fine.
«Io sono innocente», dice ai giudici. «Spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi».
Gli credono, finalmente.
Il 15 settembre 1986 la Corte d’Appello di Napoli sfascia mattone per mattone il castello accusatorio del primo grado, ma lui è già minato.
POCHE, MEMORABILI PAROLE. Torna davanti agli italiani venerdì 20 febbraio 1987, con quelle pochissime, memorabili parole, «Dove eravamo rimasti?».
Ma non è più lui, la voce è incrinata, il volto segnato, le lacrime sempre in agguato: salgono dagli incubi che, la notte, lo scaricano ancora in cella.
Lo hanno spezzato. Racconterà la figlia Silvia: «Ricordo che Manganelli, il capo della Polizia, incontrandomi mi disse: quella di tuo padre è stata la merda più gigantesca della storia. Hanno fatto una commissione parlamentare su tutto, persino su Mitrokhin: su Tortora no».
I giudici coinvolti: «Ma di cosa ci dovremmo vergognare?»

La colonna di marmo al cimitero Monumentale di Milano.

Già malato terminale, Tortora aveva presentato una citazione per danni: 100 miliardi di lire.
Il Csm archivia. Archiviato anche il referendum del 1987, nato sulle ceneri del caso Tortora, sulla responsabilità civile dei magistrati: vota il 65%, i sì sono l’80%, arriva la legge Vassalli e lo disinnesca.
Nel frattempo la Cassazione ha confermato l’assoluzione in appello, il 13 giugno 1987, quattro anni dopo la notte delle manette.
L’ULTIMA INTERVISTA. L’ultima intervista, al programma Il Testimone di Giuliano Ferrara (che poi rimedierà una querela da tre giudici), è atroce.
Tortora, rantolando, ansimando, rinfaccia al magistrato Alessandro Olivares la condotta processuale: «Mi disse allora: ‘Ma sììì, facciamo sei anni. Da dieci facciamone sei…’. E io dissi: ‘Guardi che non siamo al mobilificio Aiazzone. Lei ha una mentalità da barcaiolo giuridico veramente ripugnante. Lei ha una mentalità da barcaiolo…’». Poi non riesce più a parlare, stava già morendo.
«Ma di che cosa ci dovremmo scusare, noi?», ha ringhiato ancora di recente uno dei giudici coinvolti – e premiati – in questo splatter giudiziario.
«CHE NON SIA UN’ILLUSIONE». Restano le lettere di Tortora, strazianti, alla compagna Francesca Scopelliti, che recentemente le ha raccolte in un libro di cui si è stati molto attenti a non parlare.
Resta l’impegno di Tortora per i detenuti, per condizioni carcerarie umane, impegno che non è sopravvissuto né a lui, né al suo più grande sostegno, Pannella.
Se volete andare a trovare Tortora, sta al cimitero Monumentale di Milano, dentro una colonna di marmo. Qualcuno ha infilato l’immaginetta di un Cristo in croce con la scritta: «Uno che ti chiede scusa». Sotto l’urna, che dietro il vetro sembra ricordare a tutti un uomo ridotto in cenere prima ancora di morire, una frase urla la sua muta disperazione: «Che non sia un’illusione».