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West Bank, viaggio nella guerra biblica di Hebron

28 Agosto 2016

L43 tra i coloni armati della città dei patriarchi. Blindata dai blocchi israeliani. Con mura e reti di divisione. Dove crescono odio e segregazione tra ebrei e arabi.

Per lo shabbat, la festa del sabato, i coloni ebrei sfilano coi mitra in spalla, accanto ai musulmani.
Ogni sabato escono in gruppi silenziosi dalla sinagoga di Hebron, che per l’altra metà è una moschea, diretti verso le case adiacenti in un vuoto spettrale.
Tutto è diviso nella città palestinese dei patriarchi, tutto è violenza.


In sinagoga col mitra.

COLONI ARMATI.  «Un luogo dove non ci sarà mai pace, né felicità», chiosano gli arabi che non se ne sono ancora andati dal centro.
Dicono anche che alcune colone girino con le fondine nei passeggini riparati dalle loro gonne lunghe d’altri tempi.
Nemmeno i bambini più piccoli, con i boccoli da ortodossi, vengono sottratti alla preghiera.

Città vecchia sotto l’assedio e il coprifuoco israeliani



Tra check-point e torri di controllo.

Nel giorno del riposo degli ebrei c’è il coprifuoco.
Posti di blocco israeliani ogni 10 metri, decine di camionette e soldati di sentinella sui tetti, nel cuore di un centro già militarizzato e sotto assedio, dove chilometri di muraglie e reticoli di filo spinato separano le vecchie case dei palestinesi dai nuovi appartamenti degli ebrei.
MORTI CONTINUI. Il morto può scapparci in qualsiasi momento: l’ultima uccisa a Hebron dalla polizia israeliana, a luglio 2016, è stata una palestinese che avrebbe tentato di accoltellare un militare a un check-point.
Altri ragazzi sono finiti come lei, cadaveri a terra.
Anziché sparare alle gambe, li freddano alla testa: quasi una vittima al mese, e anche ai coloni può partire il grilletto.
COLONNE DI BLOCCHI. «Ma se un ebreo spara nelle moschee è un ‘pazzo’. Se è un palestinese un ‘terrorista’», commenta chi ci scorta.
Impossibile superare da soli i posti di blocco senza un buon accompagnatore.
Passiamo velocemente anche perché mostriamo il passaporto italiano. Alle guide palestinesi, anche se ben note ai militari, vengono invece riservati minuti di attesa ai tornelli.
La strage nella moschea dei patriarchi del 1994



Il presidio militare all’ingresso della sinagoga.
Il riferimento dei colpi nella moschea è alla strage di Hebron del 26 febbraio 1994.
Un fondamentalista ebreo, ex ufficiale dell’esercito, sfuggì ai controlli d’ingresso grazie alla sua vecchia uniforme e mitragliò alle spalle decine di musulmani chini in preghiera.
OLTRE 60 VITTIME. I vivi reagirono linciandolo. La giornata finì con 60 morti, tra credenti uccisi, palestinesi abbattuti dai militari e anche cinque israeliani massacrati dalla folla.
Per l’Fbi quelli della Lega di difesa ebraica, nella quale militava l’attentatore, sono terroristi responsabili di numerosi attentati e omicidi, anche negli Usa.
Israele (pur condannandoli) li considera uno dei gruppi sionisti di estrema destra.


La tomba di Abramo e la sala di preghiera della strage del 1994.

Nella sala della strage, oggi come allora i musulmani palestinesi recitano il Corano. Ma una telecamera piazzata dagli israeliani li controlla dall’alto.
A pochi metri, solo un muro interno li separa dall’altra metà della grande costruzione dell’età di Erode, che in parte è stata trasformata in sinagoga.
LE BARE ESPOSTE SONO UN SIMBOLO. Nel mezzo c’è la tomba di Abramo: dalla moschea, gli ebrei sull’altro lato si vedono accostarsi alle grate della sepoltura del patriarca.
Ma le bare esposte nell’edificio sono un simbolo, perché secondo le sacre scritture le spoglie terrene di Abramo, Isacco, Rebecca e Sara riposano nelle grotte sotto la città.

Dal massacro degli ebrei nel 1929 all’occupazione   



Giovani coloni armati passeggiano nella città vecchia.

Dall’antichità però i simboli fanno la storia di Hebron (in ebraico, Abramo).
Qui fu incoronato re Davide del regno di Giudea e d’Israele, per gli ebrei è il secondo luogo sacro dopo il Tempio di Gerusalemme.
UN LUOGO BIBLICO. Nella fioritura dell’Islam, era la città santa sunnita più visitata dopo Mecca, Medina e Gerusalemme.
Con l’occupazione i pellegrini venuti da fuori sono diventati una rarità: moschea e sinagoga sono blindate da posti di blocco, solo i turisti stranieri possono visitarle entrambe, se non ritenuti pericolosi.


Posti di blocco e telecamere sui tetti di Hebron.

Il controllo del quadrilatero biblico di Hebron è oggi in mano agli ebrei, che dalla fine del 1200 lamentavano l’emarginazione dal santuario dei patriarchi: l’editto di un sultano ne vietava loro l’ingresso, come ai cristiani.
IL MASSACRO DEL 1929. Il 23 e 24 agosto gli ebrei piangono anche i due giorni di massacro del 1929 (133 ebrei e 110 arabi uccisi) in Palestina, quando da Hebron partì la scintilla del putsch contro le loro comunità.
Sotto il mandato britannico erano iniziati a rientrare gli ebrei della diaspora e con i musulmani si andava rompendo il clima di convivenza durato secoli.


Tra i muri della separazione.

Allora a Hebron vivevano più di 700 ebrei tra i circa 20 mila residenti.
Oggi, dopo Nablus la città è il secondo centro della West Bank (oltre 200 mila abitanti), anche se molte famiglie arabe del posto sono andate a vivere a Gerusalemme, in un regime di apartheid attenuato.
PIÙ DI 7 MILA COLONI. I coloni del centro storico sono stimati in un migliaio, oltre 7 mila quelli nella periferia di Kiryat Arba.
Sono sempre di più: il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha appena annunciato l’«espansione degli insediamenti nel cuore di Hebron».
L’oppressione di chilometri di muri e fili spinati

Come Gerusalemme, Hebron è la città della contesa.
Israele rivendica la prerogativa dei luoghi sacri in Terra santa: il primato dell’ebraismo sull’islam – e anche sul cristianesimo.
Dal 1997 il protocollo di Hebron assegna il 20% del territorio al controllo israeliano (zona C), il restante all’Autorità palestinese (zona A).
CONVIVENZA FORZATA. Ma con il deteriorarsi delle condizioni di sicurezza il margine d’occupazione israeliano è andato sempre crescendo. In teoria, secondo l’accordo, anche il girare per strada armati dei civili andrebbe proibito dai militari.


Sopra la strada del mercato si affacciano i coloni.
Coloni e palestinesi “convivono” nella città-vecchia in uno stato di conflitto permanente, area A e C (l’area B a controllo misto è di fatto israeliana) si mischiano continuamente con l’altalenarsi dei check-point.
In pochi tra i mercanti arabi della via principale del bazar, un tempo pulsante d’attività, hanno resistito alla segregazione.
I COLONI DEL MERCATO. Le ong stimano quasi la metà degli immobili vuoti. Centinaia di coloni sono insediati ai piani superiori delle botteghe: a un palmo di naso dalle loro porte, sopra la strada, è srotolata la rete di separazione.
In basso Palestina, in alto Israele: dalle finestre sventolano provocatorie bandiere con la stella di David. 
Convivenza forzata tra spari, sassaiole e coltellate 

Altre mura e fili spinati scorrono di casa in casa, di metro in metro.
Le pietre scagliate tra dirimpettai forzati pendono dai lati delle reti, i coltelli invece non lasciano all’apparenza tracce.
TOUR POLITICI. Una famiglia di giovani palestinesi che vive tra il mercato e un abitato di coloni ci fa salire sulla sua terrazza. Da una visita simile stanno uscendo dei giovani operatori umanitari europei: i palestinesi li chiamano «tour politici».


Il terrazzo palestinese di rimpetto agli appartamenti dei coloni.

La loro vecchia casa è attaccata ad appartamenti dei coloni di recente costruzione.
Vicino, su altri tetti spuntano soldati di vedetta. A macchia d’olio si intravedono torrette di controllo israeliane e telecamere sparse: ovunque odio e asfissia.
TORRI DI CONTROLLO. Dalla terrazza, vicino alla via del mercato, di un altro edificio che ospita alcune stanze (ora chiuse) degli attivisti del Christian peacemaker team (Cpt) si osservano altri militari schierati, altri mitra.
Ma è meglio non fotografare da qui, si può poi venire interrogati, controllati (e schedati?) ai check-point in uscita.


La casa palestinese accanto a uno dei muri di divisione.
A un passo dal ghetto ebraico dei sionisti, e accanto alle camionette israeliane di rimpetto alla moschea-sinagoga, sparuti negozianti arabi vendono souvenir palestinesi.
CRESCERE NELL’ODIO. Un bambino biondo coi lunghi riccioli mima il gesto dello sputo, correndo loro incontro per strada: per credo religioso, nella città che per le tre religioni monoteiste è una delle culle divine della vita, si cresce nella cultura dell’odio.
Neanche da piccoli esiste l’innocenza.