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Le catastrofi non sono mai naturali

25 Agosto 2016

«Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che, per esempio, la natura non aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto» (J. J. Rousseau, Lettera a Voltaire sul disastro di Lisbona, 1756)[1]

E’ ancora in atto la conta dei morti: il più triste e struggente corollario di qualsiasi tragedia. Una conta che sta diventando schizofrenica e fastidiosa, forse perché in questi anni sistema mediatico e classe politica hanno sempre narrato la morte schiacciandola tra il freddo calcolo statistico ed il marketing delle emozioni.
Morti in mare, sul lavoro, per alluvioni, terremoti: l’interpretazione mainstream di questi avvenimenti ha i suoi due assi consolidati nella spettacolarizzazione della tragedia e nell’ineluttabilità delle sue cause. Noi alla morte non vogliamo abituarci, crediamo che chi muoia meriti sempre dignità e giustizia, oltre che il dovuto rispetto.
Per fare questo va smontata innanzitutto la retorica della catastrofe naturale. La “natura” non è un elemento che si interfaccia in maniera neutra con gli esseri viventi ed i danni causati da qualsiasi evento, che viene definito naturale, sono sempre il prodotto di un rapporto di potere. Un rapporto che ad un primo livello agisce nello sfruttamento sistemico che le classi dominanti hanno fatto della natura, che nell’età moderna ha il suo incipit nell’assoggettamento messo in atto dalla borghesia urbana sulla campagna circostante. Nelle alluvioni, nei tornado ed in tutti gli eventi connessi ai cambiamenti climatici il rapporto tra capitale e natura è più evidente, perché si associa in maniera diretta all’utilizzo redditizio e spropositato di suolo, sottosuolo e risorse che è stato compiuto nel corso dei secoli e continua ad essere perpetrato. Ma anche nei terremoti, benchè eventi meno prevedibili e controllabili, il rapporto tra capitale e natura si esprime pienamente. Sebbene la relazione tra surriscaldamento del pianeta ed eventi sismici sia ancora materia di studio per numerosi studiosi, quello che appare palese è che i terremoti provocano più danni laddove il territorio è interessato da fenomeni speculativi, diretti o indiretti. Nel primo caso (che in Italia è ben rappresentato dal terremoto dell’Aquila del 2009) la maggior parte delle vittime si trovava in edifici di nuova costruzione, edificati con materiali scadenti e progettati grazie alla combine di interessi imprenditoriali e politici (la famigerata “cricca”). Nel secondo caso (che è quello dei paesi laziali e marchigiani colpiti dal sisma del 24 agosto) il problema è più che altro legato alla mancata manutenzione e messa in sicurezza del territorio, per via di investimenti pubblici e speculativi che negli ultimi anni sono stati sistematicamente indirizzati verso il cosiddetto “modello grandi opere”. Proprio in provincia di Rieti esistono due importanti cantieri stradali, il completamento della Rieti-Terni e quello posto lungo la Salaria, che interessa la Valle del Velino, a pochi chilometri da Amatrice ed Accumoli. Entrambi i cantieri, appaltati alla società catanese Tecnis SpA, che ha sedi anche a Roma, negli Emirati Arabi, Tunisia e Romania, sono stati fermati da un’interdittiva antimafia da parte della Prefettura di Catania, per via di un’inchiesta giudiziaria che ha coinvolto i vertici della società. Cantieri che avevano ricevuto finanziamenti pubblici, appaltati dall’Anas senza obblighi di trasparenza e che vanno annoverati nell’ennesimo spreco di risorse sottratte ai territori.
E’ qui che entra in gioco il secondo livello di quel rapporto di potere di cui si parlava sopra. Quello che riguarda la relazione tra governance e moltitudine, che si realizza in quell’ibrido tra istituzioni costituite ed interessi privati che blinda la gestione dei territori e li mette letteralmente nelle mani di una ristretta oligarchia. Sembra quasi una beffa il fatto che il terremoto sia avvenuto solamente un giorno dopo il summit trilaterale di Ventotene, laddove il premier Renzi, allo scopo di ottenere dalla troika una maggiore flessibilità sui conti pubblici, ha rilanciato un piano di investimenti basato, tra le altre cose, su grandi infrastrutturalità civili. E’ stato dunque riproposto quel modello che, partendo a livello europeo dal piano Junker fino ad arrivare alo Sblocca Italia, continua a vedere le grandi opere come fucina di una fantomatica ripresa economica. Un modello che, oltre a calpestare qualsiasi forma di opposizione territoriale, non tiene in considerazione il fatto che è ormai messo in contraddizione da qualsiasi logica non solo ambientale, ma anche economica.
In questi anni, dopo qualsiasi terremoto che purtroppo ha scosso il nostro Paese, viene rimbalzata su tutti i media la cartina dello stivale con quella fascia rosso-scuro che lo taglia quasi a metà. Si tratta dell’area a più elevata sismicità (tecnicamente Zona 1) ed attraversa l’Italia dal Friuli-Venezia-Giulia alla Sicilia, andando più o meno a sovrapporsi con la sua dorsale appenninica. Quella cartina è impressa negli occhi e nelle menti di tutti noi e non è fatta solo di montagne, ma costellata di piccoli centri abitati e case sparse. Sono centinaia in Italia le Amatrice, le Accumoli e le Arquata e sono milioni le persone che ancora ci abitano, soprattutto nelle aree di valle. L’antropizzazione della montagna (o la “montagna urbanizzata”, per usare un’espressione cara allo storico toscano Giorgio Giorgetti) è fenomeno che si insinua nei meandri della storia italiana ed ancora oggi, nonostante alcuni evidenti esempi di spopolamento, ha un’importanza rilevante nella geografia umana del nostro Paese. Eppure non sono bastati il terremoto del Belice, di Gemona, quello dell’Irpinia, quello abruzzese; probabilmente non basterà quest’ultimo disastro per far diventare la sicurezza antisismica di tutti gli abitati della zona 1 la priorità assoluta degli investimenti pubblici infrastrutturali. «Per la sicurezza antisismica spendiamo appena l’1% di quanto servirebbe», sottotitola Il Manifesto nella prima pagina della sua edizione odierna. Si tratta di un calcolo largamente plausibile, che fa il paio con il fatto che nessun governo nazionale si è mai attivato per attivare un piano concreto e sistemico di adeguamento del patrimonio edilizio, attraverso finanziamento diretti o sgravi. Secondo il presidente del Glis (l’istituto nazionale di ingegneria sismica) Alessandro Martelli, intervistato da Il Fatto Quotidiano, «l’80% dei fabbricati delle zone ad alto rischio non reggerebbe un terremoto come quello del 24 agosto».
La ragione della mancanza di investimenti pubblici risiede nel fatto che la messa in sicurezza e la manutenzione del territorio richiedono un lavoro di cura costante e minuzioso. Si tratta di una logica molto lontana da quella del capitalismo speculativo legato alle grandi opere, che si nutre di marketing, che parassita le scelte politiche, che basa la propria rendita su titoli finanziari connessi con l’annuncio dell’apertura di un cantiere o della progettazione di un’opera. E’ la finanziarizzazione dei territori, ed in genere della natura, che opera come azione nemica di quella pianificazione che avrebbe potuto salvare migliaia di vite in questi anni.
In questo quadro appare tanto fuori luogo quanto patetico il richiamo fatto da gran parte della classe politica all’unità nazionale, riproponendo quella retorica del “siamo tutti italiani” ed “insieme ce la faremo” che sempre si annida nell’elaborazione collettiva del lutto dopo episodi come questo. Una retorica che tende a socializzare subdolamente il peso delle responsabilità e delle scelte politiche, giocando sui sentimenti e sul comune stato emozionale. Sia chiaro: la spontanea organizzazione di presidi di assistenza nelle zone terremotate, la condivisione e la cooperazione dei tanti cittadini italiani e non, nonché dei profughi delle zone limitrofe, sono un segnale forte di solidarietà che va sostenuto e incoraggiato. Tantissime associazioni, realtà di base e centri sociali di tutta la penisola si sono già attivati in questo senso. Non bisogna assolutamente essere cinici, ma mantenere la lucidità anche in queste situazioni. Forse domani saremo più lucidi, ma ci teniamo già da oggi a dire che per liberarsi da stragi umanitarie come questa, per restituire ai morti ed alla morte un senso di dignità e giustizia, bisogna innanzitutto liberarsi da questo presente e costruire un futuro migliore per tutti. Non permetteremo che ci sia una nuova L’Aquila o una nuova Irpinia. Ci metteremo di traverso in ogni modo; non lasceremo che le oligarchie politico-imprenditoriale (nella vulgata “la cricca”), che già hanno prodotto morte e distruzione, continuino a speculare sulle vite di tutti noi.

[1] La lettera si inserisce all’interno di un dibattito nato tra Rousseau e Voltaire in seguito al disastroso terremoto di Lisbona del 1755