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l giornalismo e la storia, la sfida per capire il caos del mondo arabo

13 Agosto 2016

Un giornalista e un fotoreporter. Un anno e mezzo di lavoro attraverso guerre e attentati per descrivere 40 anni di avvenimenti del Medio Oriente. E’ l’inchiesta domani in edicola con “Repubblica” (in contemporanea con il “New York Times Magazine”)
Affrontare il racconto degli ultimi quattro decenni arabi è una sfida del giornalismo alla storia. Lo è senz’altro questa inchiesta eccezionale per la lunghezza e la qualità, e perché costata diciotto mesi di lavoro.L’ha realizzata Scott Anderson (accompagnato dal fotografo Paolo Pellegrin) per il New York Times Magazine.

Il giornalismo si occupa del presente che poi, almeno in parte, diventa Storia, ossia una rappresentazione del passato, dopo avere attraversato ben inteso l’agitato periodo della memoria, affidata agli umori dei viventi. Il racconto di Anderson non sfugge a queste inevitabili tappe, ma ci dà qualcosa di più di quel che di solito è riservato al notiziario quotidiano. Offre quello che troviamo di rado nella cronaca, per sua natura precipitosa e vincolata ai fatti del momento destinati a cambiare. Senza rinunciare a una narrazione animata da personaggi e avvenimenti, in cui sono annidati episodi che appagano la curiosità del lettore, l’inchiesta ci aiuta soprattutto a decifrare il Medio Oriente, groviglio di conflitti non solo militari, ma anche ideologici, religiosi, territoriali. E lo fa con chiarezza, senza rinunciare a una passione rivelatrice di autentico interesse e anche di rispetto per quel mondo che nella nostra epoca non mostra sempre il meglio di sé. E che ci manda milioni di profughi spesso naufraghi davanti alle nostre coste.

Il racconto parte dal 1972 quando il nazionalismo del defunto Gamal Abdel Nasser, portatore di trionfi, come l’esproprio del Canale di Suez in mano a inglesi e francesi e la costruzione della diga di Assuan, e di disfatte come le guerre con Israele e le rivalità tra arabi, volge ormai alla fine con Anuar el Sadat che gli succede al potere in Egitto, il principale paese arabo. Sadat fa la pace con lo Stato ebraico e poi viene assassinato. Ricordo il Cairo invaso da una folla in lutto il giorno del funerale di Nasser, e ricordo il Cairo deserto il giorno del funerale di Sadat. Gli integralisti musulmani, imbrigliati o perseguitati da Nasser, e invece avvicinati, se non proprio corteggiati, da Sadat, hanno invaso lo spazio lasciato dal nazionalismo sconfitto. È nelle prigioni dei Paesi arabi e sulle montagne e nelle valli afgane invase dai sovietici che acquistano prestigio gli uomini di Al Qaeda, capostipite del nuovo terrorismo arabo. Che infierirà nella lunga guerra civile algerina.

I rais erano utili all’Occidente, perché mantenevano l’ordine nei loro rispettivi Paesi ma reprimevano la loro gente creando uno spazio per l’opposizione religiosa, salafita o jihadista, oppure dedita a un’assistenza sociale come quella dei fratelli musulmani. I rais durano a lungo. Gheddafi è stato il più resistente: 42 anni di potere. E forse anche il più estroverso e uno dei meno affidabili. Era ora nemico ora alleato dell’Occidente. Il quale, affascinato dal petrolio, lo bombardava oppure lo corteggiava.

La storia corre veloce nei quarant’anni raccontati da Scott Anderson. Il Medio Oriente disegnato dopo la fine dell’Impero Ottomano dai colonialisti inglesi e francesi comincia a scricchiolare nel 1991 quando Bush senior caccia dal Kuwait Saddam Hussein che l’ha invaso. Il rais ha agito convinto di avere il consenso degli Stati Uniti (suoi sostenitori nella guerra contro l’Iran). Si sbagliava e ha subito una sconfitta che ha inquinato l’unità del Paese. I curdi del Nord, più volte repressi da Saddam Hussein, hanno cominciato a imporre un’autonomia che, con le altre componenti di quel popolo, disperse tra l’Iran, la Siria e la Turchia, tende alla nascita di un Kurdistan indipendente. Quando saranno tracciati i nuovi confini del Medio Oriente emergerà quella nazione sommersa che ha una storia antica e tra i suoi antenati il Saladino.

Ma la grande frattura avviene nel 2003 con l’invasione dell’Iraq decisa da Bush junior. Ha ragione Anderson a dare largo spazio a quell’avvenimento. Al contrario del padre 12 anni prima, il figlio non risparmia Bagdad e abbatte il regime di Saddam col falso pretesto delle armi di distruzione di massa in suo possesso e con l’altrettanto falsa accusa stando alla quale avrebbe avuto rapporti con gli attentatori dell’11 settembre alle Torri Gemelle. La guerra è rapida, è quasi un’operazione logistica, ma l’intero Medio Oriente ne risente. Subito dopo si accende una guerriglia che riapre l’ antica tenzone tra le due grandi correnti dell’Islam: la forte minoranza sunnita dominatrice in Iraq da secoli perde il potere; e gli sciiti vincitori delle elezioni assumono il potere a Bagdad. Il conflitto spacca la regione in due: da un lato l’ Arabia Saudita capofila dei sunniti, dall’altro l’Iran, capofila degli sciiti. La Siria, dove governa Bashar el Assad, appartenente alla setta alawita legata agli sciiti, e l’Iraq diventano i campi di battaglia.

E in quel campo di battaglia si inseriscono i jihadisti provenienti da tutto il mondo musulmano, dal Marocco al Pakistan, dal Libano al Caucaso, dalla Tunisia all’Arabia Saudita, dalle comunità arabe in Europa. La curiosa alleanza tra gli ufficiali “laici”del disperso esercito di Saddam Hussein e i jihadisti, i salafiti, ossia gli integralisti musulmani, sarà la base dello “stato islamico”, organizzatore o ispiratore del terrorismo in Europa. Le primavere arabe sono state vampate libertarie, democratiche, subito represse. Hanno acceso forti ed effimere speranze.

L’ondata di profughi è invece il segno della disperazione. Ed è il quinto e conclusivo capitolo del racconto degli ultimi quarant’anni arabi.