General

Il giornalismo in crisi e la lezione di Letizia Leviti

15 Agosto 2016

Grazie alla reporter di SkyTg24 molti hanno scoperto che pure i reporter hanno un cuore.

Quello del giornalista è un mestiere che ha sempre affascinato le nuove generazioni ma spesso non ha garantito, e magari non garantisce tuttora, perlomeno non a tutti, le agognate soddisfazioni. Si tratta però di una categoria eterogenea fatta di persone con grandi visibilità, le cosiddette “grandi firme”, ma anche di ragazzi sconosciuti al grande pubblico che vengono pagati “tanto al pezzo” in una forma di precariato che più precaria non si può.
In generale i giornalisti non sono molto amati. Il pubblico vede in loro lavoratori pieno di privilegi e al servizio di chi li paga. Per questo spesso vengono definiti in modo piuttosto dispregiativo: “pennivendoli”.
DA TANTI CONSIDERATI CASTA. Tutti, iniziando la professione, vorrebbero diventare una “grande firma”. Sarebbe la conferma di aver fatto una carriera molto significativa e la possibilità di essere seguiti da moltissimi lettori. È un aspetto non trascurabile anche da un punto di vista della propria indipendenza intellettuale e non solo, in quanto in caso di divergenze di opinione con il proprio editore alla “grande firma” viene più facile cambiare testata o addirittura fondarne una propria.
Diventare un giornalista molto visibile offre poi anche l’opportunità di una carriera politica, di scrivere libri e saggi ed essere invitato a fare lo speaker in molte conferenze.
Nonostante molti abbiano pagato con la vita la loro passione per aver indagato sulla mafia, per aver fatto i corrispondenti di guerra, per aver contrastato la politica al potere in Paesi a scarso livello di democrazia o anche per ragioni di terrorismo, la categoria viene considerata parte della “casta” e quindi ricca di privilegi per le persone che ne fanno parte.
A mio avviso è troppo variegata per poter generalizzare per cui, per usare una terminologia del marketing, bisognerebbe segmentarla meglio e, come in molti altri casi, si scoprirebbe probabilmente che i privilegi certamente ci sono, ma riguardano solo un gruppo quantitativamente minoritario.
La maggior parte dei giornalisti, sopratutto tra le giovani leve, si batte per uscire dal precariato, per un contratto di assunzione a tempo indeterminato o per la sicurezza di una pensione che l’attuale situazione economica dell’Inpgi potrebbe far ritenere un miraggio nel medio periodo.
TROPPO SPESSO LEGATI AL POTERE. È certamente un fatto che il giornalista rimanga un uomo di potere o comunque legato al potere.
Spesso definire ‘marchette’ certe interviste ai rappresentanti dei cosiddetti poteri forti sarebbe un eufemismo. In altri casi molti giornalisti cercano solo gli interlocutori che possano essere utilizzati in quel momento a sostegno di una idea o di un progetto politico già delineati nelle loro convinzioni. Per questo riescono a riesumare vecchie cariatidi della politica o della vecchia (ma anche attuale) classe dirigente. Questi episodi riguardano giornalisti gia affermati e non quei poveretti a cui vengono riconosciuti cinque euro lordi per articolo e che pertanto vivono una condizione di ricatto permanente. Immagino quanto questi possano essere incazzati avendo visto le retribuzioni pubblicate recentemente sul sito della Rai che riguardano alcuni manager dell’ente televisivo pubblico ma anche molti colleghi della professione.
La politica dal canto suo ha sempre usato i giornalisti. Sia come altoparlante dei propri disegni politici sia come capro espiatorio di alcune sue difficoltà. Provate a chiedere a Grillo cosa pensa in generale della categoria per averne conferma. Lui peraltro se lo può permettere più e meglio di altri, in quanto i suoi elettori non leggono i giornali ma sono grandi utilizzatori dei social network. Occorre dare atto all’M5s di aver capito prima degli altri questa tendenza.
Una categoria a parte sono poi i giornalisti sportivi i quali, salvo rare eccezioni, vengono pagati per scrivere quello che normalmente ci si racconta al Bar Sport. A parte Gianni Brera, Beppe Viola e certamente pochissimi altri, è difficile ricordarne qualcuno che valga la pena di seguire o sia dotato di quella arguzia che renda interessante un suo intervento.

Le parole di Letizia, un monito per tutta la categoria
Letizia Leviti è stata anche giornalista inviata di guerra.

Per tutte le ragioni citate finora (anche se con il limite di alcune generalizzazioni) i giornalisti non sono una categoria amata e non si amano neanche tra di loro. Basta seguire i social network per capire come si rimbalzino tra loro stessi le responsabilità dell’attuale situazione della editoria e come nessuno (sottolineo: nessuno) si senta benché minimamente responsabile di aver contribuito a crearla.
«DOBBIAMO DIRE LA VERITÀ». Poi però accade un fatto non previsto. Una giovane giornalista televisiva di Sky Tg24, Letizia Leviti, muore a 45 anni per quello che per dignità è chiamato un brutto male. Questa giornalista, certamente di animo nobile, lascia uno struggente messaggio che viene pubblicato dalla sua emittente di appartenenza che ti riconcilia con la categoria: «Accidenti non avrei voluto, pensavo di farcela come tante altre volte e invece la vita non la decidiamo noi». Con la voce rotta e certamente provata dalla malattia della Leviti ci dice: «Il nostro lavoro è la verità, deve essere verità. Abbiamo un debito verso i telespettatori che credono a quello che diciamo. Dobbiamo dire la verità. Dobbiamo essere onesti intellettualmente, sempre».
Affinché, come spesso accade, non vinca l’ipocrisia, tutti i suoi colleghi anziché fare a gara per chi scrive il necrologio più bello, dovrebbero far tesoro delle sue ultime parole, da assumere come codice etico di comportamento. «Dobbiamo dire la verità. Dobbiamo essere onesti intellettualmente sempre».
Sottoscrivere un bel necrologio e poi il giorno dopo scrivere un articolo o un titolo non coerente con quello che la Levati ha lasciato come testamento etico della professione vorrebbe dire offenderla due volte. «È molto importante riconoscere le cose più importanti della propria vita».
TANTO CORAGGIO E PROFESSIONALITÀ. La giornalista di Sky Tg24, che non conoscevo personalmente, ha dimostrato grinta, coraggio e professionalità sino alla fine. Sono tutti valori di cui dovrebbe nutrirsi un bravo giornalista, non soltanto in un momento così emotivamente coinvolgente come in quello della scomparsa di una brava professionista che credeva nel suo lavoro, ma in tutto l’arco della sua professione.
La categoria le deve essere grata perché le parole del suo nobile gesto finale speriamo possano rimanere nelle coscienze di molti e perché con il suo gesto ha riconciliato una parte dell’opinione pubblica con un mondo poco amato. Adesso possiamo affermare che «anche i giornalisti hanno un cuore» e sarebbe bene che lo seguissero per riconquistare quella onestà intellettuale tanto cara alla grande giornalista che ci ha lasciato. Per rispetto a lei e a tutti gli altri suoi colleghi che hanno pagato con la vita la volontà di interpretare correttamente la propria missione.