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Via della Seta. La strage del popolo dimenticato

di Gianfilippo Terribili, 29 luglio 2016.



“Ma quel giorno non riporterà in vita le cose che abbiamo
amato: le immense giornate limpide e le azzurre calotte di ghiaccio sui
monti; i filari di pioppi bianchi che tremolavano al vento, e le lunghe e
candide bandiere da preghiera; i campi di asfodeli che venivano dopo
quelli di tulipani… Non saliremo sulla testa del Buddha di Bamiyan,
dritto nella sua nicchia come una balena in un bacino di
carenaggio… mai più.”


Bruce Chatwin, Un lamento per l’Afghanistan, 1980.


Un singolo istante può cambiare il normale trascorrere degli eventi, è
un caldo 23 luglio quando un baleno roboante squarcia l’aria di Kabul,
schegge di vetri infranti saettano sibilando e turbini di polvere
rovente sommergono la piazza affievolendo le acute grida della folla. 

Poche ore prima si era riversato in strada un nutrito corteo di
dimostranti; una pacifica manifestazione organizzata dalla comunità Hazāra
per richiedere il passaggio, nella loro provincia perennemente a corto
di energia, della nevralgica linea elettrica di nuova costruzione. La
forte esplosione colpisce il gruppo di manifestanti radunatosi nella
centrale Demazang Square, mietendo 80 vittime e causando un altissimo
numero di feriti. La rivendicazione da parte di Isis su quello che è
risultato il più sanguinoso attacco contro civili dal 2001, conferma i
più cupi timori riguardo all’infiltrazione e coinvolgimento del gruppo
estremista nel già travagliato scenario afghano. 

L’Isis infatti sta
penetrando con successo e capillarmente nel territorio consolidando una
nuova base operativa e ostacolando il difficile processo di
riappacificazione del Paese. Verificatosi a stretto giro con altri
episodi di terrorismo a noi più vicini, la notizia del massacro degli
Hazāra ha destato in Occidente poca attenzione, resa evidente dal
silenzio di mondo politico e social media. Della realtà in cui è
incorniciata l’amatissima trama del best-seller mondiale Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini
evidentemente il lettore ha serbato pallida memoria. 

D’altronde la
marginalità è un fattore che da molto tempo contraddistingue l’esistenza
di questo popolo, minoranza reietta nel lacerato contesto afghano e
spesso oggetto di discriminazione. La principale area di insediamento
degli Hazāra si trova all’interno della inospitale dorsale
dell’Hindokhush, una regione isolata che prende il nome di Hazārajāt
formata da vallate dal terreno impervio e dagli inverni interminabili.
La storia stessa sembra volgere le spalle agli Hazāra, gruppo
etnico/religioso di cui si è persa la memoria riguardo ad origine e
provenienza. Sebbene parlino il Dari, Persiano di Afghanistan, i loro
lineamenti si distinguono nettamente da quelli delle altre popolazioni
afghane tradendo una lontana origine altaica. 

L’opinione prevalente
vuole che gli antenati degli odierni Hazāra siano giunti al seguito
delle invasioni mongole del XIII secolo; lo stesso etnonimo infatti
deriva dal termine persiano per il numerale mille, probabilmente
riferito alle unità dei contingenti tribali/militari (in mongolo ming)
di Gengis Khan e dei suoi discendenti; tribù Chaghatay avrebbero dunque
colonizzato questa zona di problematico ma strategico controllo
mescolandosi con le eterogenee popolazioni locali fra le quali già
esisteva un più antico retaggio unno-eftalita. 

Ulteriore elemento che
genera frizione con le comunità vicine risiede nella fede confessionale;
durante la dominazione dei Safavidi di Iran (XVI-XVIII) gli Hazāra
infatti abbracciarono lo sciismo duodecimano, mentre al contrario la
maggioranza della popolazione afghana è di credo sunnita. In un contesto
geopolitico in cui la contrapposizione fra sciiti e sunniti ha
raggiunto un nuovo acme, l’Isis mira a esasperare la tensione sfruttando
la radicalizzazione dello scontro in ogni scenario dove le due correnti
sono a contatto. Nella complessa rete mediorientale di alleanze e
rapporti, gli Hazāra hanno sempre mantenuto forti legami con i
confratelli sciiti di Iraq e soprattutto di Iran; in quest’ultimo paese
si è infatti diretta la maggior parte della diaspora Hazāra, e l’indotto
proveniente dalle rendite degli immigrati costituisce oggi una voce
essenziale dell’economia dell’Hazārajāt. 

Tuttavia nello stesso Iran le
condizioni di questi espatriati sono inclementi; sfruttati come
manodopera a basso costo, sono impiegati nei cantieri edili e nei lavori
manuali più estenuanti, condotti spesso in condizioni di precaria
sicurezza. A Teheran una schiera di invisibili Hazāra è esclusa dalla
società e pernotta nei polverosi scheletri in costruzione o in altri
alloggi di fortuna. Anche in Afghanistan questa gente è spesso costretta
ad abitare in luoghi fatiscenti o in recessi montani, come nel caso
della comunità insediatasi nelle grotte dell’antico monastero Buddhista
scavato nella falesia di Bamiyan. 

Nonostante gli Hazāra siano il terzo
gruppo etnico rappresentando circa un quinto della popolazione afghana
complessiva il loro peso politico e socio-economico è piuttosto
limitato. Il dramma degli Hazāra ha invero radici lontane; rimonta in
gran parte alla spartizione dell’influenza militare in Asia Centrale fra
impero zarista e britannico e allo stesso processo di unificazione del
Paese. 

Al fine di istituire una compagine statuale più coesa re Amir
ʿAbd-al-Raḥmān Khan (1880-1901) soggiogò lo Hazārajāt in maniera cruenta
riducendo in schiavitù o deportando molti degli abitanti ribelli.
Durante il più recente conflitto russo-afghano gruppi militanti Hazāra
ottennero, grazie all’affiliazione sciita, supporto dall’Iran; tuttavia
la polarizzazione delle diverse identità religiose lacerò maggiormente
il Paese e dopo il ritiro delle armate sovietiche l’ascesa dei fanatici
Talebani segnò un ulteriore incremento delle violenze settarie a danno
degli Hazāra. 

Ancora oggi, a scapito di una nuova costituzione che
tutela i diritti paritari, essi continuano ad essere considerati un
elemento estraneo ed emarginato. Ben poco infatti è cambiato nei remoti
villaggi dell’Hindokush o nei più poveri sobborghi di Kabul dove la
gente vive di stenti, valutando le magre prospettive che attendono i
giovani Hazāra tanto in patria quanto all’estero. 

Lo straordinario
paesaggio delle valli di Bamiyan o Ghur, insieme al loro ricchissimo
patrimonio storico-culturale, è sicuramente la maggior risorsa che
questa gente possiede, ma in un paese martoriato il cui futuro appare
sempre più incerto, anche questo fattore risulta essere improduttivo
consegnando lo sviluppo economico della regione alla mercé di uno stato
indifferente e di nemici sempre più insidiosi.



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