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Sudan. L’indipendenza sospesa

di Bianca Saini, 20 luglio, 2016.

Cinque anni fa, il referendum ha stabilito la
nascita del nuovo stato. Parto prematuro? Di certo sono stati anni di
contrasti e di chiusure.
Manca una leadership capace di creare coesione,
stabilità e in grado di gestire l’inevitabile confronto politico e
petrolifero con il Sudan. 

Il 9 luglio 2011 è stato per i sudsudanesi un giorno memorabile. Era
finalmente diventato realtà il sogno dell’indipendenza, coltivato
durante i lunghissimi anni delle due guerre civili (1956-1972;
1983-2005) che li avevano impegnati contro il governo centrale di
Khartoum. Su Juba, la capitale del nuovo paese, erano puntati gli occhi
del mondo. A Juba, passata in pochi anni da villaggio a città in forte
espansione, quel giorno arrivarono molti leader mondiali.


Sulle tribune erette davanti al mausoleo di John Garang, il leader
carismatico che aveva guidato la guerra di liberazione, insieme a Salva
Kiir che giurava come primo presidente del Sud Sudan, sedevano Ban
Ki-moon, il segretario generale dell’Onu, tutti i presidenti o primi
ministri dei paesi della regione, oltre ai rappresentanti degli Stati
Uniti, dell’Unione europea e molti altri ancora. Ma soprattutto, in
primo piano, proprio di fianco a Kiir, c’era il presidente sudanese,
Omar El-Bashir, il nemico di sempre, che aveva rispettato, contro molte
previsioni, la scelta della secessione.



Parecchi analisti politici avevano seri dubbi che il nuovo paese
potesse trovare rapidamente una propria strada, soprattutto guardando
alla leadership ancora troppo legata all’esperienza militare, per di più
proveniente da un movimento di liberazione che non si era propriamente
distinto per coesione, e valutando una nazione in cui le linee claniche e
tribali hanno ancora un’enorme importanza.


Ma quel giorno il presidente Kiir, il vicepresidente Riek Machar e
l’allora presidente del parlamento, James Wani Igga, rappresentanti dei
tre gruppi etnici maggioritari e di tre regioni – i denka del Bahr
al-Ghazal, i nuer del Nilo Superiore e i bari dell’Equatoria – si fecero
fotografare sorridenti, con le mani destre unite in una stretta davvero
simbolica.



Solo due anni e mezzo dopo, il 15 dicembre 2013, il Sud Sudan è
precipitato nel caos di un conflitto devastante. 

I contrasti tra il
presidente e il vicepresidente sulla gestione del potere, radicati nella
diffidenza reciproca maturata durante la lotta di liberazione e nelle
mire sulla gestione delle enormi risorse, si rivelano più forti degli
interessi nazionali. In pochissimi giorni le speranze suscitate
dall’indipendenza vanno in frantumi.



Ora il paese celebra il suo quinto anniversario in una situazione
difficile e complessa. Gli accordi di pace, firmati nell’agosto 2015
sotto la pressione della comunità internazionale, sono stati a lungo
disattesi. Il governo transitorio di unità nazionale, insediatosi solo
alla fine di aprile 2016, con grave ritardo rispetto al previsto,
funziona con molta fatica. Le condizioni dell’economia sono disastrose.



È vero che formalmente è tornata la pace. E questo è un enorme passo
avanti rispetto al 9 luglio dello scorso anno. Ma molti altri passi si
dovranno fare perché il 9 luglio dell’anno prossimo si possa celebrare
un paese avviato a uscire dal tunnel di una crisi che ha minacciato la
sua stessa esistenza.


Juba non basta


Certo, il Sud Sudan non era arrivato all’indipendenza in una
condizione ottimale. Gli anni del regime di semi-autonomia, tra la firma
degli accordi di pace nel 2005 e l’indipendenza nel 2011, non erano
stati segnati da confronti proficui e da provvedimenti efficaci per la
costruzione delle istituzioni necessarie allo sviluppo umano,
democratico ed economico. In sospeso anche le relazioni future con il
Sudan, dalle quali dipende la stabilità del nuovo stato.

FONTE: Nigrizia