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Perché a nessuno frega niente degli stupri di guerra

di Elena Viale, 19 luglio 2016.

Prima che mi parlassero del documentario La linea sottile non
avevo mai realmente pensato al problema delle vittime degli stupri in
guerra. E questo non perché sia particolarmente disinformata, ma perché è
un tema che non viene affrontato così spesso. 

 

Lo stupro perpetrato da militari è considerato crimine di guerra
fin dal 1949 con la Quarta convenzione di Ginevra, e crimine contro
l’umanità dallo Statuto di Roma. Tuttavia, dal momento che è considerato
un crimine “secondario” rispetto agli omicidi e alle torture e che
spesso nel momento in cui la guerra finisce le vittime sono troppo
traumatizzate per parlarne o non sono in grado di fornire prove di
quanto subito, i condannati per questi crimini si contano sulle dita di
una mano (nel caso della guerra in ex Jugoslavia sono tre)—mentre non devo ricordarvi che le guerre sono decisamente di più.

In La linea sottile , presentato in anteprima al festival Visioni dal Mondo e in uscita questa primavera, le
registe Paola Sangiovanni e Nina Mimica affrontano l’argomento rispetto
a due avvenimenti degli anni Novanta: la guerra in ex Jugoslavia e la
missione di pace italiana in Somalia. Attraverso le confessioni di un ex
militare del contingente di pace italiano in Somalia e di
Bakira Hasečić, donna bosniaca stuprata ripetutamente da Milan Lukić e dai suoi uomini e in seguito fondatrice dell’Associazione donne vittime di guerra—che
cerca di ottenere giustizia sui carnefici—il documentario si interroga
sulla genesi di questa violenza. Ho contattato le registe per parlare di
stupri di guerra, della pacificazione della Bosnia ed Erzegovina e
della cultura in cui viviamo.

VICE: In La linea sottile
raccontate due storie—o meglio, la stessa storia da due punti di vista
opposti: quello del soldato che perpetra la violenza e quello delle
donne vittime della violenza. Perché questa scelta?

 

Paola Sangiovanni:
La tematica di fondo è la violenza. Abbiamo scelto di lavorare anche su
un punto di vista maschile seguendo una storia che parla della genesi
della violenza all’interno di un sistema valoriale e culturale. È la
stessa cultura che sottende la nostra società.


 

Bakira Hasečić


Perché vi siete concentrate sugli stupri di guerra proprio in ex Jugoslavia?
 

Nina Mimica: Gli stupri di guerra
accompagnano tutta la storia umana, ma due fattori hanno reso la Bosnia
“un caso” in materia: il primo è che molte delle vittime, sia uomini
che donne, per la prima volta hanno rotto il tabù e hanno parlato della
violenza subita esponendosi così a uno stigma che li accompagnerà per
tutta la vita. Il secondo motivo è che i media occidentali per la prima
volta si sono interessati ai fatti—forse proprio perché queste violenze,
mutilazioni e omicidi avvenivano nel cuore d’Europa. 

Bakira Hasečić è il personaggio in qualche modo centrale del
vostro racconto. Come siete entrate in contatto con lei, e di cosa si
occupa l’Associazione donne vittime di guerra?
 

N.M.: Bakira
viveva a Višegrad, una cittadina bosniaca vicina al confine con la
Serbia. Nel 1992 la cittadina è stata occupata dalle forze serbe che
hanno messo in atto stupri seriali in cui anche lei, come musulmana, è
stata coinvolta ufficialmente [Nonostante l’efferatezza e la
sistematicità dei crimini svoltisi, Višegrad non risulta sulla lista dei
comuni bosniaci dove si è svolto il genocidio]. A quel punto è fuggita a
Sarajevo con la famiglia. Pur profondamente segnata è stata una delle
prima donne bosniache a parlare pubblicamente dell’accaduto. Visti gli
effetti terapeutici che parlare aveva avuto su di lei, ha fondato
l’associazione col fine di aiutare le donne e gli uomini stuprati a
rilasciare le testimonianze ufficiali e raccogliere i fondi per avviare i
processi contro gli stupratori.

La questione principale
su cui si incentra il documentario è appunto che gli stupri di guerra
nella quasi totalità dei casi non vengono puniti, anzi molto spesso
vengono volontariamente “ignorati”.
Perché? 

P.S.:
Lo stupro è considerato un di più, un crimine da poco che non ha la
stessa importanza degli altri. Per esempio il violentatore di Bakira Milan Lukić
si è reso responsabile dell’omicidio di centinaia di persone, ma né lui
né il suo gruppo hanno subito condanne per gli stupri. E il fatto che
si tratti di una cosa avvenuta in Europa ci fa capire che è la nostra
stessa cultura: Michele, il militare italiano che racconta la sua
esperienza in Somalia, all’epoca dei fatti era un “bravo ragazzo”
impossibilitato a capire il limite tra bene e male; nella storia che
racconta la violenza sulle donne è l’ultimo step del processo di
trasformazione dell’altro in non-umano.
 

N.M.: Anche
se la convenzione di Ginevra ha dichiarato lo stupro di guerra un
crimine di guerra, tale atto è sempre stato giuridicamente considerato
solo un messaggio minaccioso per il nemico e un’aggressione alla
proprietà dell’uomo (suo marito, padre, fratello, etnia). Solo
nell’ultima decade del Ventesimo secolo la Corte penale internazionale
ha restituito in piccola parte dignità alla donna, iniziando a
condannare alcuni stupri.

Mi pare che siano solo tre gli stupratori condannati per
questo crimine al processo tenuto dalla Corte penale internazionale che
ha seguito la guerra in Bosnia.
 

N.M.: Sì,
all’Aja alcuni stupratori sono stati condannati, ma la maggior parte
sono stati accusati solo per i crimini “maggiori”. Il Tribunale tace sui
motivi per cui gli stupri non sono stati considerati parte dell’accusa e
noi possiamo solo tentare di indovinare il perché. Forse le difficoltà e
le tempistiche dilatate nel raccogliere prove su stupri commessi anni
prima? La fretta di dimostrare l’efficienza del Tribunale, espressa
nelle numerose condanne per i crimini facilmente comprovabili? O i
motivi politici di cui parlano le vittime obbligate dal Tribunale al
silenzio?

Pensate che si sia trattato anche di un processo di annientamento della memoria a fini politici?
 

N.M.: Considera,
al netto dell’incapacità del sistema giudiziario post-bellico, che la
Bosnia è un paese diviso in due entità amministrative e territoriali che
funzionano quasi come due stati diversi dove le leggi sono applicate in
modo diverso e soprattutto diversi sono valori: chi è considerato
criminale di guerra da una parte, dall’altra è considerato un eroe. La
guerra non è finita davvero, è finita solo sulla carta quando a Dayton i
presidenti delle nazioni in guerra hanno congelato le operazioni
belliche—senza però capire chi era responsabile della guerra, o chi era
la vittima. Per questo oggi in Bosnia ogni processo che riguarda la
guerra è molto delicato, perché mina l’equilibrio precarissimo tra
nazioni che continuano a convivere ignorando la verità su quello che gli
era accaduto e dandosi le colpe a vicenda. In ballo ci sono anche
interessi economici: se per esempio per la quantità e la sistematicità
degli stupri si accusa l’esercito di uno stato di genocidio, il paese
che ha commesso il genocidio dovrebbe risarcire materialmente l’altro
paese… È nelle paranoie economiche che si arena la giustizia locale ed
internazionale nei Balcani.

Se però è possibile “dimenticare il passato” a livello
istituzionale, non è possibile farlo nella memoria delle vittime, o nei
luoghi. Mi riferisco per esempio a
l campo di stupro e tortura che le truppe serbe hanno
stabilito nell’ex hotel Vilina Vlas di
Višegrad. Eppure, oggi quell’albergo è
aperto come se niente fosse.
 

N.M.: Quando nel 1992 le
truppe paramilitari serbe hanno occupato Višegrad hanno posto il loro
quartier generale nell’albergo. Quel luogo è rimasto tristemente famoso
per tutta la guerra: chi veniva portato là per essere “interrogato”
raramente tornava a casa, gli uomini venivano fucilati sulle rive della
Drina, le donne venivano tenute imprigionate nell’hotel che era
diventato una specie di bordello per i soldati. Più di 200 donne sono
state stuprate, torturate e poi uccise lì. Solo due sono riuscite a
sopravvivere. E oggi, l’hanno riaperto—ed è anche ben
frequentato.


Lo stupro in quel contesto era uno strumento di pulizia etnica.
 

N.M.: Siccome
serbi, bosniaci e croati vivevano insieme al momento dello scoppio
della guerra la situazione è precipitata: ogni edificio, ogni strada
erano pericolosi. La propaganda e le false notizie ufficiali hanno fatto
il resto; gli uomini dovevano mostrare il proprio coraggio e l’adesione
al gruppo uccidendo o stuprando pubblicamente i propri ex amici di
etnia diversa. Era un atto iniziatico. È diventato poi uno strumento di
pulizia bellica: se violentavano una donna e la lasciavano viva ma
stigmatizzata dalla comunità costringevano la sua famiglia intera a
trasferirsi altrove. Dunque con lo stupro di una sola donna “ripulivano”
la città di quattro-cinque persone indesiderate.

Michele, il militare italiano che nei primi anni Novanta ha partecipato alla missione di pace Ibis in Somalia
e che rappresenta la controparte del documentario, racconta
l’educazione in caserma basata sulla violenza—che in qualche modo
diventa quasi normale, parte integrante del suo agire. Ma questo trigger basta a spiegarne il comportamento [a
un certo punto nel film Michele racconta della violenza su una ragazza
somala, legata a un mezzo blindato e violentata con un’arma cosparsa di
marmellata
]?
 

P.S.: No, il film ci porta a farci domande
che restano senza risposta. Ma quello che vorremmo far passare è che
questa è una violenza culturalmente molto più ampia della guerra.
 

N.M.: L’ambiente esterno è il trigger
evidente della violenza, ma dell’ambiente interno, quello dell’anima,
siamo responsabili personalmente e per questo possiamo ribellarci e
scegliere i nostri valori. Come Michele in seguito e Bakira, che hanno
deciso di denunciare i crimini e lottare affinché si sappia la verità.

Nel caso della missione di pace in Somalia, qualcuno ha
pagato per questi crimini? Nel film il militare fa vedere le foto delle
terribili azioni dei compagni, perciò non si può dire che non ci siano
prove.
 

P.S.: Per tutta quella vicenda c’è stata solo una
vera denuncia. Le torture nei confronti dei civili sono pratiche
illegali ma in Somalia, come si vede nelle foto, erano all’ordine del
giorno. Per esempio nell’episodio in cui a un uomo vengono applicati
elettrodi attaccati alla batteria di un camion tutti i volti sono
riconoscibili, eppure soltanto un ufficiale è stato condannato per
alcuni mesi, prima che la condanna cadesse in prescrizione. Alla fine
l’unico a pagare davvero per i fatti della Somalia è stato Hasni Omar
Hassan, che era venuto in Italia proprio per testimoniare la sua
esperienza come vittima di violenza di alcuni militari italiani e alla
fine è stato incarcerato per il concorso nell’omicidio di Ilaria Alpi e
Miran Hrovatin. Innocente, ha fatto 16 anni di carcere come capro espiatorio. Per dirti che la macchina della giustizia è una macchina che ha tante implicazioni.

Non è la prima volta che tu, Paola, tratti del ruolo della donna nelle situazioni di conflitto. Già in Staffette, il tuo documentario dedicato alle donne della Resistenza italiana, ti eri dedicata alla questione.
 

P.S.: Sì,
e la violenza da parte maschile non è mai assente e le donne prima di
sbloccarsi e parlarne hanno bisogno a volte anche di decenni, a volte
anzi non lo fanno mai. Per esempio una delle donne protagoniste di Staffette,
pur avendo lavorato anche nelle scuole per tenere viva la memoria delle
Resistenza non ha mai apertamente parlato delle violenze sessuali a cui
è stata sottoposta
quando l’hanno deportata a
Sachsenhausen dopo un rastrellamento. Ma non c’è da stupirsi:
ricordiamoci che fino al 1996 in Italia è stato in vigore il codice
Rocco, per cui lo stupro era considerato un reato contro la morale pubblica, e non contro la persona che lo subiva. 

Secondo voi l’associazione di Bakira da una parte e il
lavoro di presa di coscienza a cui state contribuendo anche voi
riusciranno a cambiare qualcosa?

 

N.M.: Crederò
nella giustizia quando non saranno più gli interessi economico-politici
a governare i rapporti umani. Per Bakira, però, ogni piccola vittoria è
significativa.
 

P.S.: Il problema è talmente grande
che a volte viene da pensare che non ci sia niente da fare. Ma noi
abbiamo il dovere di fare qualcosa, di essere un motore di
consapevolezza.

FONTE: Vice