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Le culture underground in Tagikistan, un nemico da combattere?

di Piotr, 15 luglio 2016.

Quello che sta accadendo in questo remoto angolo
di Asia Centrale, ovviamente senza che alcun eco giunga fino a noi, è
abbastanza preoccupante. Il Tagikistan è infatti entrato in una spirale
repressiva che rischia di farsi sempre più soffocante, una spirale fatta
di leggi e divieti ma che rivela solo l’incapacità della classe dirigente di gestire una situazione critica. Un recente articolo, uscito sulla stampa internazionale e dedicato alla scena undergound tagika, offre molti spunti interessanti sulla direzione verso cui il Tagikistan, ma non solo, si sta orientando. Il futuro potrebbe tingersi di un pessimo colore.


Il grosso problema del
Tagikistan, anzi il lungo problema, si chiama confine con l’Afghanistan.
Nonostante oggi l’attenzione dei media sia concentrata sulla Siria e
sull’ISIS, o Daesh come dir si voglia, i talebani afghani non sono
scomparsi, sono anzi arrivati a conquistare nuove aree come la parte di territorio afghano confinante
con le repubbliche centroasiatiche, tra cui ovviamente il Tagikistan.
Come se non bastasse, la crisi russa e la decelerazione dell’economia
cinese, aumentano il numero dei problemi che il governo tagiko affronta con leggi ad hoc e l’immersione del paese in una sorta di stagnazione.


La paura principale si chiama estremismo islamico,
che la classe dirigente ex-comunista combatte senza tenere conto dei
sentimenti moderati della popolazione musulmana. L’unico partito
politico islamico riconosciuto in Asia Centrale è stato messo fuorilegge,
ponendo forse fine al processo di pacificazione seguito alla guerra
civile, nuove leggi regolamentano barbe e abbigliamento femminile, i
funzionari devono giurare fedeltà al presidente – una carica ora
attribuita a vita – mentre il potere legislativo mette mano anche nell’organizzazione dei matrimoni. Tutto questo si ripercuote sulle culture underground.


Premettiamolo subito: quelle che appaiono nei talent show
non sono culture underground, quella è solo la commercializzazione
delle culture underground. Musiche come il rap nascono nelle strade, non
negli studi televisivi, il che significa che sono spesso musiche fatte da brutta gente
per brutta gente, alla faccia di ogni indice di ascolto. Il punk è per
sua natura provocatore e ostile al sistema, inutile far passare una boy band costruita a tavolino come dei ragazzacci. Le culture underground sono anche per molti ragazzi una valvola di sfogo nei momenti storici socialmente più difficili, quando più servono risposte.


In Tagikistan invece la sopra citata stagnazione
di brezneviana memoria, in cui la classe dirigente vuole gettare il
paese, ha provocato negli ultimi anni un crollo del numero degli
appartenenti a queste “sottoculture”. Rapper, writer, punk e metallari sono sempre meno,
oggi ai concerti si ritrovano circa 50 persone quando prima il pubblico
era di solito sulle 200 unità. Questi movimenti giovanili hanno una
forte impronta occidentale, il che non piace al potere tagiko
che esalta la lingua ed uno stile di vita tradizionale in realtà
abbastanza artificioso, come la “costruzione” delle etnie al tempo di
Stalin.


L’aspetto paradossale è
che così facendo i giovani punk tagiki sono di fatto accomunati ai loro
coetanei che, invece, decidono di recarsi a combattere in Siria (i
tagiki tra le fila dell’ISIS dovrebbero essere circa 700). Il risultato
tremendo di queste politiche dettate dalla lotta alla diversità
è di creare dei fili tra mondi molto lontani, il punk ed il
fondamentalista, ma egualmente messi al margine. Per ora questo non
sembra accadere in Tagikistan ma l’alta percentuale di rapper tra le file dell’ISIS dovrebbe far riflettere. Per ora ci si limita a sprecare un potenziale giovanile moderno e aperto al resto del mondo.


Il caso tagiko contrasta ancora di più
con il fatto che l’Asia è da sempre punto di incontro di culture
diverse. Sebbene siamo abituati a pensare alla rotte carovaniere, agli
strumenti tradizionali che fanno da sottofondo a cammelli e deserti, la
realtà non è uno spot pubblicitario. In Kazakistan c’è una fiorente scena hipster,
la Mongolia sta producendo grandiose band che fondono rap e canto
tradizionale, in Iran esistono gruppi death metal e nel sudest asiatico i
batteristi picchiano sui tamburi come fabbri. Anche Turkmenistan e Uzbekistan possono vantare una interessante scena musicale locale dai toni underground.


Quello che si può trarre come lezione
da questo storia è come le società non si possono congelare, si rischia
solo di accumulare una pressione che prima o poi esploderà covando
sotto il conformismo sociale. La lotta per la normalità è persa in
partenza, se l’identità non è aperta al mutamento
diventa una questione pericolosa. A dire il vero un’altra lezione
sarebbe quella che ci insegna come in Occidente il punk sia morto,
resuscitato e rivenduto, segnando un interessante parallellismo che qui non approfondiremo. Il fondamentalismo islamico rischia di essere l’unico “immaginario sovversivo” rimasto.


Infine un pensiero a Lei Jun, leader dei cinesi Misandao, scomparso troppo presto.

P.S. Questo post è stato scritto
prima della strage di Dacca, compiuta da fondamentalisti istruiti
appartenenti alla classe media bengalese. Le vittime erano in gran parte
imprenditori di un settore, quello tessile, spesso al centro delle
polemiche sulla delocalizzazione e lo sfruttamento. Tutto questo fa
molto riflettere, soprattutto in merito al ruolo identitario del
fondamentalismo islamico…

FONTE: Farfalle e trincee