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La vita nel limbo dei rifugiati del campo greco di Katsika

di Martin Waldman, trad. Maira Mohamed, 22 luglio 2016.

Foto di Cristina del Campo Martín

Seduto sul suolo opaco nella sua tenda, con un braccio che sbuca da
una branda fornita dai militari, Mohanad aspira pensieroso una lunga
boccata di fumo dalla sua sigaretta. “Non ce ne siamo andati perchè lo
volevamo. Avevamo case, lavori, automobili.”
Mesi di amarezza e frustrazione sono palpabili attraverso il suo
sorriso tagliente. “E ora aspetto. Ci possono volere mesi, o anni della
mia vita. Non lo so.
Questo non è vivere, è sopravvivere.”
 

All’inizio di marzo, con la speranza di trovare una luogo sicuro in
cui dar vita a una famiglia, Mohanad ha lasciato la sua casa vicino alla
città siriana di Homs e, come centinaia di migliaia prima di lui, ha
attraversato la Turchia, il Mediterraneo, e l’isola di Lesbo, per
arrivare in Grecia. Oggi, è uno delle circa 800 persone che vivono al
campo profughi di Katsika, amministrato dai militari e lungo sei
chilometri, situato fuori dalla città di Ioannina nel nord ovest della
Grecia, e uno dei circa 40 campi [en, come tutti i link a seguire] che sono sorti nel paese dalla fine dell’inverno.


Arrivato a Katsika a metà aprile, mi ha subito colpito il contrasto
dello scenario: pittoresco, con le cime delle montagne innevate che
dominano l’orizzonte, con le colline verdeggianti sullo sfondo; mentre
il campo è un mare polveroso di montagne frastagliate su una fila di
tende triangolari, tutte uguali.


A ogni tenda corrisponde un codice alfanumerico, e le file e le
sezioni delle tende coincidono con comunutà etniche e linguistiche:
Palestino-siriani, curdi iracheni, yazidi, afghani, e così via. Il tempo
da queste parti cambia di continuo, alternando cieli chiari e blu col
sole a picco alle piogge incessanti, di solito per due o più giorni di
fila.

María Peñalosa, quando è arrivata a Katsika a marzo per la prima
volta per iniziare la sua attività di volontariato, pensava che avrebbe
aiutato principalmente nella distribuzione di latte, pannolini e altri
beni di base necessari nel nuovo campo appena costruito. “Quando siamo
arrivati, noi eravamo in sette, mentre i rifugiati erano in 1200″
ricorda, “stavano congelando, e non c’era assolutamente nulla nel campo
tranne le tende, senza pavimento. 

Le persone non avevano scarpe, calze o
abbigliamento adeguato – era una situazione disperata.”



Dopo le prime settimane particolarmente turbolente, una rete di
supporto ha iniziato a prendere forma. Poche piccole ONG sono arrivate a
Katsika, così come è iniziato a crescere il numero dei volontari e
delle donazioni di cibo, vestiario e altri rifornimenti di base
dall’Europa. Con l’eccezione di un piccolo gruppo rimasto per molto
tempo come Maria, la lista dei volontari cambia, solitamente con un
numero che si aggira intorno ai 40.



Attraverso la creatività e la tenacia, i volontari a Katsika sono
riusciti a migliorare le condizioni giornaliere di chi vive al campo.
Tra le varie iniziative hanno costruito un sistema equo di distribuzione
di indumenti e beni di prima necessità, formano classi per insegnare la
lingua e allestiscono proiezioni notturne di film, cucinano pasti
sostanziosi in aggiunta a quelli delle razioni militari, e hanno
costruito spazi comuni e bagni privati per le donne.



Nonostante questi sforzi, le condizioni di vita al campo rimangono
tuttavia povere. Le tende si allagano quando piove e sono estremamente
calde a temperature elevate; i bagni non sono igienici; i sistemi di
drenaggio sono inadeguati con pozzanghere di acqua sporca che diventano
habitat di insetti. C’è la mancanza di zone in comune per le donne. I
bambini, che sono circa un terzo degli abitanti del campo, sono
specialmente vulnerabili a malattie, e sono sempre annoiati.

Tuttavia, Katsika è lontana dall’essere il peggior campo gestito dai militari greci. Soprattutto dopo che la polizia greca ha evacuato l’enorme campo improvvisato di Idomeni a
fine maggio, disperdendo le centinaia di rifugiati rimasti verso nuovi
luoghi ufficiali, sono emersi racconti sulle condizioni estremamente povere di molti campi in tutta la nazione.



In un altro pomeriggio nella sua tenda, Mohanad parla di una breve
conversazione su Whatsapp avuta con un conoscente e che attualmente è
bloccato in un centro detenzione nell’isola di Chios.


“Penso di essere tra i fortunati.”


Si riferisce alla data del suo arrivo in Grecia, il 19 marzo, il giorno prima che il patto tra UE e Turchia diventasse
effettivo e che i punti di registrazione sulle isole greche davanti
alla costa turca si trasformassero in centri di detenzione.



Ovviamente, nessuna delle vaghe promesse o delle assurde proposte del
patto sarebbero mai diventate realtà, dato che la maggior parte delle
misure suggerite vanno contro le leggi internazionali sui diritti umani,
e perchè l’idea di garantire veramente viaggi senza visto ai cittadini
turchi entro tre mesi non è mai stata realmente sul tavolo di
discussione. L’accordo è stato una manovra politica trasparente per
allentare la pressione dalle spalle dei leader europei e per cercare di
controllare – o meglio fermare – l’afflusso continuo dalla Turchia alla
Grecia.

Questo mossa politica ha delle conseguenze umane serie. Il concetto
chiave del patto è la stessa nozione che continua a formare la politica
migratoria nell’Unione Europea: la deterrenza. Rendere la vita a chi
arriva sempre più miserabile, per far sì che gli altri rimangano a casa;
se offri condizioni di vita sicure e dignitose, si aprirà il flusso di
persone. È un approccio che mostra una totale mancanza di conoscenza
della gravità della situazione nelle aree di conflitto, e che mette da
parte qualsiasi nozione di diritti umani o di compassione.



Per oltre cinque settimane ho fatto volontariato a Katsika, mi hanno
raccontato le loro vite lasciate in città diventate stenografie di
atrocità spregevoli e di violenze brutali: Raqqa, Mosul, Sinjar, Palmyra, Aleppo. Tuttavia,
l’azione di fuggire dai posti più pericolosi della terra viene in
realtà punita con condizioni di vita sotto lo standard e in un perpetuo
ed esasperante stato di limbo ed incertezza; lo stesso principio di
deterrenza ne è un effetto.



A fine maggio, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i
rifugiati UNHCR ha annunciato che avrebbe collaborato con il servizio di
Asilo Politico greco per iniziare la pre-registrazione dei
rifugiati nei campi in tutta la nazione, una parte necessaria nel
processo per presentare domanda di asilo in Grecia o in qualsiasi parte
d’Europa. A fine giugno però, nessuno a Katsika è riuscito a
pre-registrarsi; l’ultima indicazione è che il processo inizierà a metà
luglio, ma ormai le previsioni ufficiali vengono raramente considerare
serie. In un processo multifasico che si muove a ritmi glaciali, i
rifugiati a Katsika sono ancora nella fase 0. 

Con molti che stanno per
affrontare il loro quarto mese al campo e con l’intensificarsi
dell’estate greca, continueranno a essere spinti oltre i loro limiti.
Per loro, così come per altri 500mila rifugiati in Grecia, la fine non è
ancora all’orizzonte.

FONTE: Global voices