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L’ Isis raccontato da quattro jihadisti. Intervista.

di

Jableh, dopo un attentato rivendicato dal gruppo Stato islamico


Subito dopo la fondazione del califfato, i miliziani del gruppo
Stato islamico (Is) hanno abbattuto con una ruspa la frontiera tra la
Siria e l’Iraq. Perché il califfato, in teoria, è universale: nella
realtà, però, è profondamente influenzato dai contesti nazionali. I suoi
tre bastioni, la Siria, l’Iraq, la Libia, non hanno molto in comune. Se
in Libia la guerra è questione di milizie e tribù, per tanti in Siria
l’Is è ancora il male minore rispetto al presidente Bashar al Assad,
mentre in Iraq, in fondo, esprime la voglia di rivalsa dei sunniti, che
erano al potere con Saddam Hussein e ora sono emarginati dalla
maggioranza sciita. E se a Parigi, a Bruxelles, in Europa si parla di
islamizzazione del radicalismo, più che di radicalizzazione
dell’islamismo, perché a muovere i foreign fighters spesso è
tutto tranne che la religione, altrove, come in Tunisia, nei Balcani,
nel Caucaso, molti miliziani dell’Is non sembrano essere un fenomeno poi
così nuovo: sono mercenari. Combattono per uno stipendio. Il califfato
vuole essere universale ma poi cambia di paese in paese. Di jihadista in
jihadista.

Abdo, 23 anni, Aleppo

Quando ho conosciuto Abdo aveva un piercing al sopracciglio. Era al
primo anno di università, e si era trasferito da Damasco ad Aleppo per
unirsi ai ribelli. Distribuiva pane. Oggi ha 23 anni, e distribuisce
ancora pane. Ma è del gruppo Stato islamico.

Ufficialmente si occupa di logistica: ci ritroviamo per caso nello
stesso caffè a Urfa, in Turchia, una delle città di confine dove fanno
base molte ong. La presenza dell’Is, qui, non è un segreto. A ottobre
due attivisti siriani sono stati uccisi e decapitati. Per l’Is è stato
facile infiltrarsi, anche perché alcune ong hanno scelto di assumere dei
jihadisti: spesso avere in auto uno come Abdo è il solo modo per poter
passare un checkpoint. Anche se nessuno può ammetterlo, tutta l’area di
confine è ormai un sottobosco di relazioni ambigue. L’unica certezza,
per ora, è che Abdo è arrivato ieri per una riunione, e domani torna ad
Aleppo: per lui la frontiera è aperta. Per tutti gli altri no: la
polizia spara sui profughi che tentano di attraversare.

Ad Aleppo, a un certo punto, Abdo è stato anche mio vicino di casa.
Abbiamo cenato insieme mille volte. Ma non per questo ha voglia di
parlare con me. “Perché mai dovrei parlarti? Nessun giornale ha un
corrispondente dall’America che non parla l’inglese, e invece qui è
normale che fate gli esperti di Siria e neanche conoscete l’arabo”, mi
dice. “Ma cosa pensi di capire? Stai qui perché senza la guerra non sei
nessuno. E invece così scrivi libri, giri il mondo… Guadagni con i
morti. Non ho bisogno di te. Se ho voglia di dire qualcosa, ho internet,
posso dirla da solo”.

Neppure i siriani però sembrano avere bisogno di te, gli dico.
“Quali siriani?”, mi risponde duro. “Gli amici tuoi? I siriani che
campano con lo stipendio delle vostre ong, e stanno al vostro servizio, a
distribuire aiuti umanitari a quelli che voi stessi assediate e
affamate? State tutti dalla parte di Assad: una mano li bombarda, e
l’altra va a incerottarli. Noi abbiamo creato un governo dal nulla,
dalle macerie, e nessuno fa la fame. Abbiamo ripristinato l’acqua,
l’elettricità, riparato le strade. Una guerra non si vince senza sangue e
sacrifici. E l’Europa, allora? Non fu liberata con le armi? Se i
musulmani vogliono liberarsi dal nazismo, oggi, la guerra è un male
necessario. Ed è una cosa chiara a tutti i siriani. Voi giudicate un
governo in tempo di guerra con gli stessi criteri con cui lo
giudichereste in tempo di pace”, dice. “Vedi? Non ha senso parlarti. Sei
in malafede”.


“Non siamo in crisi. Tu ti perdi nella cronaca, Kobane, Ramadi,
Palmira… E anche con Falluja, ora, cosa cambia?”, dice. “A me interessa
il senso delle cose, la direzione ultima della storia. Vent’anni fa non
esistevamo. Oggi siamo al centro dell’attenzione. Oggi negli Stati Uniti
c’è una città a maggioranza musulmana [Hamtramck, vicino a Detroit].
Possiamo perdere Raqqa e Mosul ma possiamo comunque colpirvi in
qualsiasi momento. Non ho bisogno di organizzare un attentato come
quello dell’11 settembre. Posso spaccarti la testa con un mattone in
questo esatto istante. Dove c’è un infedele, c’è un pericolo”.

Molti siriani sono arrivati all’Is da altre milizie jihadiste,
cercando di unirsi a chi era meglio armato e finanziato. Abdo invece ha
scelto subito l’Is. Per lui, avanzare per gradi ha significato la morte
di tutti quelli che aveva intorno. Ha perso tutti, tre fratelli, una
sorella, e anche il padre, morto di cancro a Damasco. Del gruppo con cui
distribuiva il pane non è rimasto nessuno. Ma la morte, dice, non gli
fa paura. “Sono pronto. La mia battaglia è ancora quella del primo
giorno: libertà e dignità. Solo che ora ho capito che i nemici sono
molti di più, e molto più forti di quanto credevo, la battaglia è molto
più complessa: altrimenti sostituisci un’oppressione con un’altra,
nient’altro. I ribelli vogliono solo arricchirsi. Non bisogna
conquistare il potere, ma cambiare il modo in cui il potere è
esercitato. E non ho paura di morire per questo. È il segno che sono
sulla giusta via”.

Bilal, 31 anni, Tunisi

“Era il sogno di tutti, qui: Lampedusa. E invece ora il sogno è
Raqqa. Lo Stato islamico. Andare in Italia non ha senso. Finisci in
mezzo a una strada, a riempire casse di pomodori, venti euro per dodici
ore e sempre a nasconderti, sempre con la paura addosso perché sei
clandestino. Francia, Svezia, non fa differenza. Anche se hai un lavoro
vero, in Europa resti sempre un arabo. Uno che se guarda una ragazza,
lei chiama la polizia. Sempre un ospite, mai un cittadino, uno che deve
scusarsi per essere lì. E invece non rubiamo lavoro a nessuno: anzi,
siamo gli schiavi che consentono alla vostra economia di girare. Di cosa
dovrei ringraziarti? Se tu hai quello che hai, è perché io non ho
niente”.

Un ponte distrutto a Manbij, nel nord della Siria

“Ma non ha senso rimanere qui. Perché in apparenza io e te siamo
simili, è vero, la vita in Tunisia, l’unico paese dove la rivoluzione ha
avuto successo, è una vita normale, dicono così, no? Ma osservami bene:
io non ho che una copia di quello che hai tu. I jeans, il giubbotto di
pelle… E invece è tutto finto. Non è pelle, è plastica. Sembriamo
simili, ma io torno a casa stasera, a un’ora da qui, in un posto che non
è la Tunisia che conosci tu, non è la Tunisia della Lonely Planet, è
una fogna dove non ho l’elettricità, non ho l’acqua calda, ho solo un
materasso per terra e delle coperte. Non ho neanche un lavoro, in
realtà, è finto anche questo, e non solo perché sono un ingegnere e qui
faccio la guida per i turisti, ma perché con quello che guadagno mi pago
a stento i mezzi per venire qui, come mi pago una casa? Io torno a
casa, la sera, e mi sento uno zero. Ho 31 anni, una laurea, e devo
ancora chiedere a mio padre gli spiccioli per le sigarette. Se anche tu
mi guardassi, non potrei permettermi di fare lo stesso, perché non
potrei offrirti neanche un caffè per fare due chiacchiere. Non ho
niente, posso solo tornare qui domani e vivere un altro giorno del cazzo
identico a questo. Non sono niente”.



“Ho creduto nella rivoluzione. Ma è stato tutto inutile. Dite che la
Tunisia è stabile, ma è immobile. Nel resto del mondo a vent’anni sei
pieno di energie, di progetti. Avviare un’impresa, iscriverti a un
dottorato. Cambiare città. O anche solo un viaggio, una vacanza. L’auto
nuova. Ma io? Io la vita la vedo solo attraverso voi turisti. Mentre vi
spiego Annibale, Cartagine, mentre guardate i mosaici: e vi guardo,
intanto, guardo le vostre camicie dal taglio perfetto, le borse di
cuoio, l’iPhone, e questa pelle liscia, sì, senza rughe, tracce di
terra, le dita di chi non deve guadagnarsi il pane con il sudore, vi
guardo, e immagino questa vita che non potrò mai avere, quello che per
voi è normale, i figli, l’ufficio, la partita di calcetto. Vi guardo e
vi odio. Abbiamo sbagliato, abbiamo pensato che il nemico fossero i vari
Ben Ali: e invece avevamo contro tutto il mondo, perché quando 62
miliardari possiedono la stessa ricchezza di metà della popolazione del
pianeta, quando un intero paese come la Grecia fa la fame, ed è la
Grecia, non è la Somalia, è l’Europa, allora non è il problema di Ben
Ali e dei conti svizzeri di sua moglie: è che tutti voi dovete
rinunciare a qualcosa. Se io non ho niente, è perché tu hai tutto. Ma
non l’avevamo capito. Non avevamo capito che la battaglia non si poteva
vincere solo in Tunisia, perché non riguardava solo la Tunisia. Che non
era solo questione di cambiare un governo, di rovesciare un regime.
Perché siamo poveri, secondo te? Perché siamo analfabeti? Se siamo
poveri, è prima di tutto a causa dell’Unione europea. Fate i paladini
del libero mercato: poi versate sussidi ai vostri agricoltori e vietate
le importazioni in Africa, mentre i vostri agricoltori esportano qui a
prezzi più bassi dei nostri. Il libero commercio è la vostra libertà di
produrre e vendere, e la nostra di comprare e indebitarci. Invece di
studiare l’islam, vai a vedere cosa fanno il Fondo monetario
internazionale, le multinazionali. Invece di pensare a Raqqa, pensa a
Bruxelles. Abbiamo fallito non perché abbiamo osato troppo, ma perché
abbiamo osato troppo poco”.



“Io non voglio diventare come te, non voglio fare una rivoluzione
per diventare uno che per conservare i suoi privilegi, per comprarsi
l’iPhone nuovo ogni sei mesi, è disposto ad affamare il resto del mondo.
Perché questa è la tua società, questa è la tua cultura, mica Kant e
Rousseau. Tu non ne vedi la violenza perché è una violenza sofisticata,
ma non per questo meno feroce. Il sangue è la violenza dei poveri. E io
non ho alternative. Non ho niente da perdere. Grazie all’11 settembre,
siamo tornati a esistere. Se è di questo che avete bisogno per capire,
per accorgervi di noi, l’avrete”.

Kareem, 57 anni, Baghdad

“Venite quando preferite”, dice gentile un assistente. 
“Il dottor
Kareem sarà qui dalle 11”. In Iraq i comandanti dell’Is ti fissano un
appuntamento come i geometri del catasto. Non sono miliziani, sono
funzionari.

Vivono un po’ ovunque, nelle aree sunnite, e per i vicini di casa il
loro ruolo, la loro identità, non sono un segreto. 

Se anche uno volesse
chiamare la polizia, d’altra parte, non saprebbe chi chiamare. Baghdad,
in teoria, ha un sindaco ma nessuno ricorda il suo nome. Chi ha un
problema chiama la milizia di fiducia. Quelle principali sono due: Asaib
Ahl al Haq, specializzata in attacchi agli occidentali, e le Brigate
Badr, specializzate in omicidi con il trapano.

Kareem ha 57 anni, è un militare di carriera esperto in artiglieria.
Si occupa di munizioni. E la ragione per cui ha scelto l’Is, dice, è
semplice: “Non voglio che i miei figli siano costretti a emigrare in
Europa”. Perché ormai l’intero Medio Oriente, dice, è un disastro.
“L’Iraq è il quinto produttore al mondo di petrolio, ma gli abitanti di
Baghdad hanno solo quattro ore di elettricità al giorno. Ed è la
capitale. Non pensare al telefonino da ricaricare: pensa alle
incubatrici negli ospedali. A chi ha bisogno della dialisi. Sono anni,
qui, che rubate tutto, però vedete solo quello che avete voglia di
vedere. E quindi ora gli eroi sono i curdi. Sono ladri come tutti gli
altri, si spartiscono gli appalti tra amici, e appena avanzano di mezzo
metro bruciano tutto perché gli arabi non possano tornare, e dicono che
siamo stati noi: e occupano le nostre terre. Però per voi sono gli eroi
di Kobane”, dice. “Perché hanno il petrolio. Perché sono i vostri
mercenari, combattono su ordinazione in cambio del potere. Puoi mentire
ai tuoi lettori ma non a me. Io conosco la verità quanto la conosci tu.
Avete rovesciato Saddam ma non Assad, e perché? Perché Saddam ha tirato
gli Scud su Tel Aviv, mentre Assad, padre e figlio, facevano solo
chiacchiere. Dalle alture del Golan non è mai entrato in Israele neppure
un gatto randagio”, dice. “Mi avete tolto tutto, ma non mi toglierete
anche i figli: è il momento di rimboccarsi le maniche e ricominciare.
Ricominciare dall’islam, che è l’unica cosa che ci ha dato dignità e
grandezza. Non voglio che i miei figli siano costretti a vivere a testa
bassa in una delle vostre periferie. Non sono un assassino. Sono un
padre. Un padre come tutti”.

“Rispetto chi mi rispetta”, dice. “Ma non chi è ospite e si sente
padrone. Ogni società ha le sue regole. E questa è la terra dell’islam:
chi non è musulmano, rispetti le regole e sarà il benvenuto. Molti, qui,
sono delle quinte colonne”, dice.

Il riferimento non è solo agli statunitensi: è soprattutto agli
sciiti. Gli arabi sunniti in Iraq sono circa il 20 per cento della
popolazione. Al potere negli anni di Saddam, ora si sentono emarginati
dalla maggioranza sciita. Che Kareem, però, definisce in un altro modo:
ingerenza iraniana. Non è solo un problema di sunniti contro sciiti,
dice. “Alcuni musulmani usano l’islam per i loro interessi. Due anni fa
sono stato con mia madre alla Mecca. Era la prima volta. Ma invece di
trovare preghiera e spiritualità, ho trovato una specie di parco giochi
con hotel a sette stelle. Per alcuni sembrava una vacanza invece di un
pellegrinaggio. Non mi interessa se erano sunniti o sciiti: sono un
pericolo per l’islam”. 

 

Autobomba piazzata nel quartiere Karrada di Baghdad, in Iraq



“La domanda più importante devi farla a te stessa. Perché ti hanno
spedito in Iraq solo ora? Solo dopo che abbiamo fondato il califfato?
Perché non eri qui durante l’embargo? Pensi davvero che siamo più
violenti degli altri? L’embargo ha causato cinquecentomila morti:
secondo te sono meno importanti solo perché sono morti senza violenza?
Tu sei solo una pedina e non lo sai. L’islam significa sottomissione. Io
sono servo di Dio, ma tu sei serva dei potenti. Stiamo entrambi
combattendo, solo che tu stai dal lato sbagliato della storia”.

Mohammed, 26 anni, Sarajevo

“Chiamami Mohammed. Tanto per voi siamo tutti uguali. 
Se sei
musulmano, sei musulmano e basta. Violento e ignorante. Tutto il resto,
la tua storia, la tua vita, non conta. Se sei musulmano sei sporco e
basta”.

Mohammed, in realtà, è l’ultimo nome che gli avrei associato: non
fosse altro perché siamo a Sarajevo, è biondo, e mi aspetta al caffè
Tito, che sembra un centro sociale, con birra e musica dei Blur. Ha una
felpa con il cappuccio e un libro di Asimov, e indossa delle New Balance
blu elettrico. Sembra appena tornato da una partita di calcetto. Invece
è appena tornato dalla Siria.

La Bosnia ed Erzegovina ha 3,8 milioni di abitanti, per metà musulmani, e in alcune piccole comunità si applica illegalmente la sharia.
Il più noto reclutatore europeo di jihadisti, Husein Bosnić, è di
Sarajevo. Da qui sono arrivate le armi per gli attacchi di Parigi. Ma la
vera guerra di Mohammed non è la Siria. Lui è nato nel 1990. “Ho un
ricordo vago di mia madre”, dice. “Fu uccisa da un cecchino quando avevo
tre anni. Sono cresciuto con mia nonna, una donna minuta, che parlava
da sola. Sempre vestita di nero. Mio padre era un tipografo. Poi è
diventato un alcolista. Diceva che era colpa mia. Che ero viziato, che
quel giorno volevo a tutti i costi della cioccolata. Che altrimenti mia
madre sarebbe rimasta a casa. Appena ho potuto sono andato via. Però
credo che lui sia ancora vivo”, dice. Mohammed studiava. Ma poi ha avuto
un po’ di problemi con la legge, un paio di risse, un furto. Ed è
andato in Siria. “Mi impasticcavo tutto il tempo. Stavo diventando come
mio padre”.

Un terzo dei 330 bosniaci che combattono con l’Is ha precedenti penali.
La guerra è finita nel 1995 con gli accordi di Dayton, che dopo
centomila morti hanno creato un difficile equilibrio tra le etnie. La
Bosnia ed Erzegovina è ora divisa in due entità, la Federazione
croato-musulmana e la Repubblica serba. Ha cinque presidenti, di cui tre
a rotazione uno ogni otto mesi, ha tre parlamenti, tre governi, 136
ministri. Centoventisette partiti.

La caccia ai jihadisti è affidata a ventidue diversi corpi di
polizia. Il tasso di disoccupazione è al 43 per cento, e la
disoccupazione giovanile è la più alta al mondo: 63 per cento. “Anche se
lavori, è inutile. Non ce la fai”, dice Mohammed. “Lo stipendio medio è
di 450 euro. Che futuro puoi avere, qui? Non hai neppure un presente.
Io volevo ritrovare un percorso, una direzione. Ma non è una cosa
mistica. Alla fine sono andato in Siria per la tua stessa ragione:
fermare la guerra. Vedevo tutti quei ragazzini in televisione, in mezzo
al sangue, e pensavo: anche io sono stato così. Non voglio che diventino
come me. Solo che tu credi alle parole, io ai fatti”.



Tu pensi di non avere una religione, di non credere. E invece credi nel mondo così com’è


I bosniaci che hanno scelto l’Is sono di due tipi. I cinquantenni, o
quasi, veterani delle guerre dei Balcani, usati come addestratori: e i
loro figli, più o meno, ragazzi cresciuti tra le macerie della
Jugoslavia. Tra eroina e povertà. E infatti per Mohammed la sharia,
al fondo, significa rispetto dell’ordine. Inteso come rispetto
dell’autorevolezza, però, più che dell’autorità. “Una società senza
regole non può funzionare. Una società in cui ognuno è libero di
decidere cosa è giusto e cosa è sbagliato, in cui ognuno è Dio di se
stesso: non può funzionare, perché così, in realtà, prevalgono le regole
invisibili. Le regole dei più forti”, dice.


L’infedele non è un non credente, ma più esattamente, un miscredente:
ed è la cosa più pericolosa. “Perché tu pensi di non avere religione,
di non credere. E invece credi nel mondo così com’è”. E il mondo così
com’è, dice, “per me non ha spazio”.

“Perché mai dovrei credere nella democrazia? E Hitler, allora? Non fu
eletto dalla maggioranza dei tedeschi? Milosevic? Governare, governare
una società come la propria vita, è questione di saggezza, di
riflessione. Non di numeri”.

“E comunque questa intervista è una perdita di tempo”, dice. “Tanto
so perfettamente che secondo te sono uno che ha problemi. Ma chi è che
ha più problemi, uno che prova a fermare una guerra o uno che continua a
prendere il sole, mentre i bambini muoiono in spiaggia? Quello che ha
bisogno dello psicologo, qui, non sono io”. 

FONTE: Internazionale