General

Il viaggio di un padre su un gommone per l’Italia per salvare la figlia

di Khalifa Abo Khraisse, trad. Giusy Muzzopappa, 14 luglio 2016


Una mia amica è una giornalista che dedica la maggior parte del suo
tempo a raccontare storie di migranti. Mi piacciono i suoi articoli.
Leggerli mi offre la rara e bellissima opportunità di ascoltare delle
persone senza interruzioni, e di ascoltare la loro voce nella mia testa,
vedendo le cose dal loro punto di vista. Nel periodo in cui la mia
amica si trovava in Libia, quando discutevamo delle motivazioni di chi
sceglie di tentare la sorte in un viaggio della morte, lei a volte
diceva che la disperazione è una motivazione fortissima: le persone
partono perché non hanno altra scelta. Io sostenevo il contrario:
secondo me a compiere questo salto della fede non sono persone
completamente disperate che hanno perso ogni fiducia.


Le cose non sono bianche o nere, hanno sempre delle sfumature. Non so
se sostenevo questa posizione perché ci credessi o soltanto per
divertirmi a provocarla. Adoro fare una bella conversazione e lei era
bravissima ad argomentare. Ora che ha lasciato la Libia, non posso fare
altro che continuare a leggere i suoi articoli e mandarle dei messaggi
di tanto in tanto. Discuto tra me e me, ma non è bello come quando ne
parlavamo insieme.

Da spettatori vediamo le foto dei gommoni che partono per un viaggio
in cui è in gioco la vita o la morte mentre sorseggiamo il caffè, ne
discutiamo e facciamo analisi, e tutti hanno una teoria per spiegare il
fenomeno. 

Cosa fa sì che un padre o una madre decidano di mettere il proprio
figlio su una barca? Quale stato d’animo può portare a una simile
decisione? Ci penso. Io non sono un padre, ma amo profondamente la mia
famiglia. Guardo il mio nipotino e la mia nipotina e penso a cosa non
sarei disposto a fare per proteggerli. E nel profondo del cuore so che
l’amore dei genitori è più divino e infinito rispetto al mio amore, al
di là di qualsiasi paragone.

Lo capisco quando guardo mia madre, questa grande donna che mi ha
amato in modo così forte, incondizionato, che non ha mai smesso di
credere in me. Perfino quando ero più giovane e neppure io mi sarei
amato, lei mi amava lo stesso.

Di nuovo, cosa fa sì che un padre o una madre decidano di mettere il
proprio figlio su una barca? È un atto di disperazione o un tentativo di
restare aggrappati a un’ultima speranza? È un atto di crudeltà ed
egoismo, oppure di misericordia e abnegazione? È una fuga vigliacca
dalla realtà o un ultimo atto di coraggio?

E se ciascuno di questi scommettitori avesse un motivo diverso? Forse
da lontano la situazione può essere la stessa, ma i motivi sono diversi
per ogni persona. Gli esseri umani non sono palle da biliardo che
reagiscono sempre in modo calcolato, è tutto molto più complesso.

Abdul Hakim Alshaibi è un libico, nato nel 1977. Ha studiato
ingegneria meccanica e faceva l’insegnante nella città di Sabratha. Dopo
una lungaattesa, ha avuto ildono di una bambina, Sajeda. Pochi
anni dopo, nel 2013, a sua figlia è stata diagnosticata un’anemia
aplastica. Lui ha fatto tutto quello che era in suo potere per curarla e
ha seguito ogni spiraglio di speranza: dopo un viaggio tra gli ospedali
libici e quelli tunisini, alla fine del 2014 è andato in Turchia, dove
la bambina è stata sottoposta a due interventi falliti di trapianto di
midollo.

Il padre ha assistito impotente al deteriorarsi della sua salute. I
medici gli hanno detto che non c’era altro da fare. È tornato in Libia e
ha cominciato a bussare a tutte le porte; ha fatto il possibile e
l’impossibile per ottenere un visto. Tutti i suoi tentativi sono
falliti. Le autorità libiche non hanno mosso un dito per aiutarlo,
limitandosi a farlo rimbalzare da un ufficio all’altro. Lui guardava la
sua bambina spegnersi giorno dopo giorno all’ospedale centrale di
Tripoli, privo di tutti i servizi.



Perciò ha fatto quello che doveva fare: ha comprato una barca e
delle provviste e alle 5.30 del mattino del 28 giugno 2016 è salpato
assieme a Sajeda da Sabratha. Ha rifiutato l’idea di non rincorrere ogni
singola possibilità quando il nostro governo gli ha voltato le spalle e
il visto che non era riuscito a ottenere avrebbe condannato a morte sua
figlia senza darle l’opportunità di lottare. È salpato in compagnia di
una piccola flotta di barche che lo hanno affiancato per tutto il
viaggio. Sulle tre barche, gli amici più cari, i vicini di casa e suo
fratello. Non li hanno abbandonati mai, finché le navi della guardia
costiera italiana non sono apparse all’orizzonte.

Uno degli amici ha fatto un video diventato virale
in meno di 24 ore. Più tardi, alla televisione libica che lo ha
contattato, Abdul Hakim ha raccontato: alle dieci la guardia costiera
italiana ci ha raccolti e alle dodici abbiamo lasciato le acque libiche
diretti a Catania. Siamo arrivati il giorno dopo alle due e mezzo del
pomeriggio. Ci hanno accolti e adesso lei si trova in ospedale, dove sta
ricevendo le cure necessarie.


Sajeda a Istanbul dopo un’operazione, il 6 giugno 2016; a destra Sajeda e suo padre.

E quando il giornalista libico gli ha chiesto se gli italiani li
avessero trattati male o se, “come dicono”, li avessero messi in campi
di accoglienza dove le condizioni di vita sono pessime, lui ha risposto:
“Appena la barca è arrivata ci hanno trasferiti immediatamente; non
abbiamo sperimentato le procedure di cui parla, ci hanno trattati bene.
Avevo con me tutti i documenti e i referti medici, e adesso stanno
facendo tutti gli esami necessari, e lei si trova in una struttura
specializzata. Le sue condizioni sono stabili”. 

Il ministro della salute libico ha rilasciato una dichiarazione dopo
che il video è diventato virale e la storia è stata raccontata da tutti i
canali televisivi. Nella dichiarazione si declinava qualsiasi
responsabilità: le autorità avevano compilato una lista di cinque
pazienti in condizioni simili che avevano necessità di viaggiare e la
questione a quel punto era nelle mani del ministero delle finanze.

Abdul Hakim ha raccontato a un sito libico di essere stato trattato
molto bene sulla nave della guardia costiera, di essere stato sistemato
insieme alla figlia in un posto comodo e di aver ricevuto tutto ciò di
cui avevano bisogno. Al loro arrivo, ad attenderli c’erano una squadra
medica e un’ambulanza che li ha portati al Policlinico di Catania, in
Via Santa Sofia 78, nel padiglione 4. Ha anche detto che alcune ong
italiane si stanno facendo carico delle spese mediche.

Con tutto il cuore vorrei poterli ringraziare tutti, uno per uno, e
tradurre tutti i commenti e i post usciti sui social media libici. Non
quelli in cui si maledicono e si incolpano i governi libici, ma le
centinaia di altri in cui si esprime gratitudine e amore al popolo
italiano che si è dato da fare per aiutare Sajeda come se fosse una sua
figlia.

Nella lista diffusa dal ministero della salute c’erano altri bambini
che aspettano ancora un miracolo. Uno di loro era il figlio di Abdoul
Wadoud Jamal, è morto pochi giorni dopo l’arrivo di Sajeda a Catania.

Questa è una barca, una storia.

 FONTE: Internazionale