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Era come se dovessimo giustificare la nostra esistenza di arabi, musulmani e gay

di Chiara Comito, 04 luglio 2016.

Saleem Haddad. Foto per gentile concessione.


Dopo la sparatoria nel locale gay di Orlando del 12 giugno scorso, in solidarietà alle vittime della strage,
su Facebook ha iniziato a circolare l’immagine qui sopra. 

La didascalia
recita: “Il mio pensiero va alle vittime
dell’attacco omofobo di Orlando. In questa foto ci sono tre arabi en
travesti. Al diavolo l’omofobia, al diavolo l’islamofobia,
e al diavolo gli ipocriti che usano l’una per giustificare l’altra.
Avete tutti le mani sporche di sangue. E se questa foto ti offende, hai
le mani sporche di sangue anche tu.” 

A scrivere è Saleem Haddad, una
delle tre persone fotografate, e se inizialmente il suo messaggio ha
parlato soprattutto a coloro che si riconoscono nella comunità LGBT
araba o musulmana, il passo al resto del mondo è stato breve. 



Saleem Haddad è un giovane scrittore e attivista nato a Kuwait
City da madre tedesco-irachena e padre palestinese-libanese, e dopo aver
vissuto tra Kuwait, Cipro, Giordania e il Canada, ora si è stabilito a
Londra. Con il suo compagno e il loro cane. E ancor prima che il suo
nome comparisse sopra quella foto, sulla vita dei gay nel mondo arabo ci
aveva scritto un romanzo, Guapa, che ha avuto un successo strepitoso ed è stato recentemente tradotto in italiano per edizioni e/o con il titolo Ultimo giro al Guapa.

Il protagonista di Ultimo giro al Guapa,
Rasa, ha 27 anni e vive in una con la nonna in una città del Medio
Oriente senza nome, stretta tra una dittatura liberticida e il
fondamentalismo religioso. Una mattina all’alba la nonna lo trova a
letto con Taymour, il suo fidanzato. È subito ‘eib, vergogna,
quel sentimento che impregna da sempre la vita di Rasa. Da qui e
dall’arresto di Maj, drag queen e migliore amico di Rasa, prendono avvio
il romanzo e la ricerca dell’identità e della libertà personale del
protagonista, che dovrà confrontarsi anche con la sua “arabità” e
“islamicità” e scoprirà che le etichette che si appiccicano a chi
proviene dai paesi arabi e musulmani sono difficili—se non
impossibili—da staccare.


VICE: Vorrei partire da quanto accaduto a Orlando poche settimane fa. Qual è stato il tuo primo pensiero? 

Saleem Haddad:
Quando ho letto cosa era successo, il mio primo pensiero è stato:
speriamo che non sia un arabo o un musulmano. In quanto parte della
comunità LGBT mi sono subito sentito solidale con le vittime,
naturalmente, e ho pensato che quello era stato un attacco contro di me.
Ma ero anche furioso perché mi trovavo nella situazione in cui mi
dovevo anche preoccupare di come i media si sarebbero occupati
dell’intera faccenda se fosse saltato fuori che era stato un arabo o un
musulmano a fare la strage.

E poi, con l’emergere dei dettagli, la reazione dei media e della politica è arrivata.
 

Infatti.
Subito dopo abbiamo assistito a Donald Trump che diceva che dovevamo
attaccare il terrorismo islamico, a Hillary Clinton che diceva che
dovevamo bombardare ancora di più l’Isis [il responsabile della strage, Omar Mateen, avrebbe giurato fedeltà allo Stato Islamico poco prima della sparatoria],
e tanta altra islamofobia. Io non sono nemmeno musulmano, ma mi sento
di farne parte in qualche modo: sono cresciuto in società musulmane e ne
ho visto gli aspetti positivi e negativi, so quanto tutto sia molto più
complesso di come viene raccontato. All’interno della comunità LGBT nel
mondo arabo e musulmano ci siamo sentiti bloccati: era come se
dovessimo giustificare la nostra esistenza. Non c’era spazio per il
nostro lutto.

Per non parlare poi di stati omofobi come l’Egitto e l’Arabia
Saudita, che si sono subito affrettati a condannare l’attacco ma si sono
rifiutati persino di menzionare la sessualità delle persone uccise.
Quel giorno ho vissuto molte emozioni diverse ma, soprattutto, ho
provato un’immensa tristezza e moltissima rabbia.

Così hai postato quella foto su Facebook che è diventata virale nel giro di pochissimo. 
Quando
l’abbiamo scattata non avevamo intenzione di postarla. L’avevamo fatta
la notte prima per noi, e ci sono anche io. Ma dopo gli attacchi abbiamo
sentito che era politicamente importante postarla: non tanto per
attaccare quelli che usano l’islamofobia e dire che in quanto arabi e
musulmani queer noi siamo parte di questa comunità che era stata
attaccata. Era importante metterla online, piuttosto, per dimostrare
quell’ipocrisia latente per cui se tu, persona qualunque, trovi quella
foto offensiva, anche se dici che l’attacco di Orlando è stato orribile e
tragico, ma ti senti offeso dall’omosessualità, per me tu sei parte di
quello che è successo. Sei parte di quella cultura che ha creato Orlando
e quindi ne sei responsabile.

Nel tuo romanzo, Ultimo giro al Guapa, affronti già alcuni di questi temi. Come ti è venuta l’idea di scriverlo? 

Ho
sempre voluto scrivere una storia gay ambientata in Medio Oriente e
raccontare della comunità LGBT locale, di cui non si sente mai parlare,
ma ho faticato molto per trovare il giusto punto di vista. È stato nel
2011 [con l’inizio delle rivoluzioni arabe] che per la prima
volta ho avuto l’idea di provare a raccontare questa storia, ma ci ho
messo quasi due anni e mezzo a completare il romanzo. Nel 2011 c’erano
molto ottimismo e speranza nell’aria, e nella mia testa fantasticavo
all’idea di dare alla mia storia un happy ending. Ma quando gli
eventi hanno cominciato a diventare sempre più complicati anche la mia,
di storia, ha preso un’altra piega: è diventata più introspettiva e si è
trasformata in una storia sull’identità in tempi complicati e pieni di
contraddizioni.

Trovo molto interessante che
la situazione politica abbia a tal punto influenzato il tuo lavoro.
Quindi come hai deciso che Taymour e Rasa non dovessero finire insieme?
 
Il
mio piano originario era quello di far finire il romanzo con Taymour e
Rasa che si allontanano insieme verso il tramonto. Mentre scrivevo però,
mi sono accorto che c’erano storie molto più importanti da raccontare
su come si possa condurre una vita coerenti con se stessi e le
difficoltà che questa scelta comporta in Medio Oriente. Come si può
restare autentici nel mezzo di imposizioni e limiti politici e
culturali? Così ho capito che Taymour e Rasa avrebbero preso due strade
differenti, e che era impossibile che finissero insieme.
Perché hai scritto Guapa
in inglese e non in arabo? So che fin da piccolo sei stato esposto alla
lingua inglese—ma mi chiedevo se ci fossero anche motivi diversi.
 
L’arabo
per me è sempre stata una lingua molto pesante, c’erano molti
riferimenti alla religione e al nazionalismo che sentivo che non mi
appartenevano. L’inglese mi offriva una via di fuga anche per gli
argomenti delle letture. Una cosa interessante, che devi tenere
presente, è anche che molti appartenenti alla comunità LGBT nel Medio
Oriente e nel mondo arabo scrivono e comunicano tra di loro in inglese.
Credo che ciò sia in parte dovuto al fatto che l’arabo solo recentemente
sta cercando di aprirsi al dibattito su questioni che riguardano la
sessualità: le parole per parlare di sessualità sono un campo minato e
contestato, e solo di recente si è tentato di utilizzare parole più
positive, o almeno neutre. Parole come “mithli” [omosessuale] sono relativamente recenti. Per molti LGBT arabi, l’inglese rappresenta una lingua molto più rispettosa da usare.
Nel romanzo ci sono anche
moltissimi riferimenti al patrimonio culturale sia occidentale che
arabo. Rasa ascolta le canzoni di Fairouz [nota cantante libanese] e Umm Kulthum [diva della canzone egiziana] ma è un fan di George Michael. E anche le letture: Gramsci, Marx, Edward Said.
 
Disseminare
il romanzo di tutti questi riferimenti culturali e letterari non è
stata una decisione che ho preso consapevolmente. Mentre scrivevo Guapa,
pensavo a come io ero maturato intellettualmente e politicamente e a
come avevo scoperto la mia identità: un po’ come tutti mi ero ispirato a
moltissime fonti letterarie da tutto il mondo; all’università, per
esempio, mi ero letteralmente innamorato di Gramsci. È stato quindi
naturale che Rasa facesse lo stesso. Credo che però in parte volessi
anche abbattere questa idea essenzialista che ci sia una sola cultura
araba o una sola cultura occidentale—mentre c’è così tanto che possiamo
imparare e apprendere da tante culture e idee.

In Guapa
c’è anche una critica molto aspra verso i media occidentali e
l’imperialismo: nel college americano in cui studia, Rasa incontra
Cecile, una ragazza francese che a tratti sembra rappresentare la
cultura occidentale. A volte anche in modo un po’ stereotipato.
 

C’è
un punto in cui Cecile e Rasa stanno mangiando insieme dallo stesso
piatto e Cecile divide il cibo in due parti, avvertendo Rasa di mangiare
solo dalla sua parte e di non oltrepassare il confine: per Rasa questo
modo di fare è tipicamente occidentale. Banalizza e semplifica
l’accaduto e ne tra una generalizzazione, cosa su cui io come scrittore
non concordo. Ma con questa scena stavo cercando di far vedere come
queste piccole cose che fanno parte dei caratteri delle persone possono
essere usate per parlare in modo più esteso di un’intera civiltà o una
parte del mondo. All’università che frequentavo in Canada mi veniva detto
costantemente—senza cattiveria—”Oh, sei così arabo,” o, “questa cosa che
fai è così araba.” Ti senti come se ogni tua singola azione
rappresentasse una cultura molto più grande di te. E quindi ho pensato
che sarebbe stato interessante raccontare questa dinamica, ma
all’inverso.

Molti hanno definito il tuo
libro un esempio di letteratura araba “queer”, o lo hanno chiamato
“romanzo gay”. Etichette e categorie a parte, a me è sembrato che Guapa sia un romanzo di formazione. Sei d’accordo con questa lettura?
 
Sono
assolutamente d’accordo. Per me non è un romanzo gay e credo che
chiamarlo così lo limiti molto. Rasa non pensa solo alla sua identità
sessuale, pensa anche alla società, alla situazione politica, alla sua
famiglia e a come lui possa far parte di tutto questo. Si fa delle
domande che tutti noi ci siamo fatti quando avevamo vent’anni.

E tu? Dopo aver scritto Guapa, hai in qualche modo l’impressione di essere diventato una specie di portavoce della comunità araba gay? 

Oh,
no! Non è un ruolo per cui mi sento adatto, non posso parlare per la
comunità araba LGBT: siamo tutti diversi e abbiamo così tante opinioni
che io posso solo parlare per la mia esperienza personale. Continuerò a
parlare e ascoltare chi mi viene a cercare, ricevo molte email da parte
di persone che fanno parte della comunità LGBT in tutto il Medio Oriente
e cerco sempre di rispondere e ascoltare—ma non credo di poterlo fare
sul lungo periodo. Sicuramente ci saranno persone che si sentono
rappresentate da quello che scrivo, ma alla fine io parlo di cose che
sono importanti per me. E questa mia scelta continuerò sempre a
difenderla.

FONTE: Vice