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Con il sangue come inchiostro


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La femminista
boliviana María Galindo analizza il femminicidio come crimine di Stato. È
un concetto teorico basato su un’esperienza concreta: il collettivo
Mujeres Creando (Donne che Creano), che ha fondato e di cui fa parte
María, accompagna il processo giudiziario del femminicidio di Andrea, la
figlia di una delle sue aderenti.  E con questo dolore ha ricamato una
bandiera di lotta sotto la quale dà rifugio a molte vittime che chiedono
giustizia. Come ottenerlo? È la domanda che ispira questa riflessione
partorita nella trincea.
mai in silenzio mostra fotografica rio de janeiro da nuova resistenza
Scatti del fotografo Marcio Freitas esposti sulla spiaggia di Copacabana

Scrivo queste riflessioni con la rabbrividente sensazione di stare scrivendo con il sangue delle donne come inchiostro.  
Il sangue di Andrea versato sull’asfalto,
il sangue versato sul podere che Verónica coltivava quando è stata
assassinata, il sangue di lei; di quella di 50 anni, di quella di 30, di
quella di 44, di quella di 18.



Ora è chiaro che quando parliamo di femminicidio stiamo parlando del “diritto universale” di ogni uomo di disporre della vita di una donna, anche fino al punto di eliminarla, diritto che caratterizza la società come una società strutturalmente patriarcale.

Sì, hai letto bene.

Non c’è errore nello scritto: il femminicidio rende visibile un diritto maschile di prendere la vita dell’ “altro”, che siamo noi, e di disporre di questa vita come gli pare e piace.


Quando parliamo di femminicidio stiamo parlando di una figura penale
introdotta nei nostri codici di profilo molto recente (forse la Bolivia è
uno degli ultimi paesi della regione ad averlo fatto). Una figura
penale introdotta, che ha sostituito la precedente figura del “crimine
passionale” con la quale ogni uomo
poteva dire –di fronte al femminicidio dalla propria compagna–, di aver
subito una violenta emozione, di aver subito un impulso di cui non era
responsabile.



Quando parliamo di femminicidio stiamo parlando del diritto di sostituire una donna uccidendola, il diritto di eliminare una donna uccidendola, il diritto di bloccare la libertà di una donna uccidendola, il diritto di sovrapporre il potere del maschio su una donna uccidendola: è questo quello che rappresenta il femminicidio.

Per questo è un crimine contro la libertà delle donne.

Perché è la libertà di loro, di noi, quello che il femminicidio ha voluto bloccare.


Così si comprende perché moltissime volte il femminicida, nella sua
narrazione criminale, non si riconosce come un assassino perché non si
riconosce nel desiderio di uccidere una donna, ma nel diritto di
impedire, bloccare, condizionare questo o quel comportamento di lei.


Questo è molto importante perché ci permette di comprendere che il
femminicidio non è la tragedia personale di una donna che ha gestito
male la sua relazione affettiva con un uomo o che si è imbattuta con
l’uomo sbagliato nel momento sbagliato. Il femminicidio è un’arma patriarcale contro la libertà delle donne che consiste nell’eliminarle.



Il femminicidio è oggi un grave problema strutturale nelle relazioni
uomo-donna in tutte le nostre società, perché rappresenta una forma di
risposta violenta di fronte ad un
processo di ribellione sotterranea che noi donne stiamo affrontando
negli orizzonti di vita personale che ci siamo proposte
.
Abbiamo decine di casi che ci parlano di scene di femminicidio dove è
la donna che voleva riscuotere gli alimenti, o è la donna che voleva
divorziare, o è la donna che voleva mettere fine alla relazione. 

Il
femminicidio è una narrazione sanguinosa di risposta di disciplinamento
della totalità delle donne attraverso l’eliminazione e la morte di
alcune di noi.


Il femminicidio funziona socialmente come un castigo patriarcale
contro “la donna cattiva”, per questo l’insistenza di trasformare ogni
femminicidio in una specie di giudizio morale sulla donna assassinata, dove è lei –che è già morta– quella che deve rendere conto della propria vita su misura della narrazione della femminilità.



Questo meccanismo del femminicidio come castigo e del femminicidio come diritto maschile universale su ogni donna, non funziona esplicitamente, ma è un meccanismo subcosciente collettivo
di fronte al quale nella società c’è una negazione nevrotica. La
società non riconosce che è così, pertanto, per negare nevroticamente
questa realtà, si scatena intorno al femminicidio una specie di
normalizzazione della morte delle donne, di rutine necrofila, di consumo
della notizia della morte delle donne. Per questo si offre e si
permette nei mezzi di comunicazione, all’interno dell’apparato
giudiziario e di polizia la narrazione del femminicida che non si
riconosce come assassino e che, anche con moltissima frequenza, diventa
una vittima di fronte al “comportamento” della morta.


Il femminicidio non si misura in cifre


Questa riflessione ci porta anche a comprendere che il femminicidio non può essere misurato in cifre. Non è un crimine orribile per la quantità di donne. È un crimine orribile per il valore sociale che questo crimine ha,
per l’immensa giustificazione sociale che si attribuisce all’assassino,
per la grande protezione mediatica su cui conta, per la presunzione di
innocenza che si trasforma in una presunzione di impunità.



Le cifre sono allarmanti, sì.

Attualmente in Bolivia stiamo parlando del fatto che ogni 3 giorni
viene assassinata una donna in un contesto di femminicidio. Nonostante
ciò, questa cifra è minore di quella reale perché sono molti i
femminicidi che si riescono a coprire come suicidi, come incidenti o che
semplicemente neppure vengono denunciati. Si uccide la donna, la si
sotterra e la si sostituisce con la seguente nel paese, nel quartiere,
nella famiglia, nella facoltà, nella comunità o nel lavoro.



Il femminicidio si trasforma in
un castigo sociale perché funziona come messaggio per l’insieme delle
donne che sono intorno alla morta:
per le amiche, le vicine, le figlie e le parenti.


Quasi mi dà fastidio doverlo dire: non si tratta di trasformare la
donna morta in una virtuosa perché è morta, non si tratta di
trasformarla in martire. Noi amiamo la vita e siamo storicamente
estremamente stanche della salvezza attraverso la via del martirio.
Quello che accade è che la donna assassinata è stata assassinata a causa
dell’esercizio della propria libertà, a causa del contrasto tra le sue
decisioni personali e quelle del suo compagno sentimentale.



Il messaggio che il
femminicidio lascia impresso nel subcosciente sociale è: per salvare la
tua vita, per proteggere la tua vita, devi sottometterti
.
Che non si intenda che partiamo dalla necessità di convertire la donna
morta in una falsa eroina perché questo sarebbe fare il gioco della tesi
della salvezza attraverso il martirio.


La donna morta è quella spogliata di tutto il suo valore sociale.

La donna morta è quella che era in una lotta personale per la propria libertà personale individuale.

È quella sostituibile, è quella scomoda, è l’impiccio, è una cosa a perdere.


Questo è il contenuto politico che lo stato dà alla vittima, ed è in
questo contesto che funziona come messaggio di castigo sociale su tutte
noi.


La parola d’ordine Ni Una Menos
(Non Una di Meno) –che [non] mi piace e che ha percorso varie
mobilitazioni contro il femminicidio (in vari paesi)– ci parla di questa
percezione collettiva che noi donne, forse in modo molto intuitivo,
abbiamo. È la conferma che noi collettività di donne riceviamo il
messaggio che quando si uccide una
donna, dietro c’è una strana sorte di annichilimento e sostituzione di
noi. Per questo senza pensarlo gridiamo: “NI UNA MENOS”.


Più che una protesta, è in fondo una accettazione della morte per femminicidio come un annichilimento della libertà delle donne.

È una tacita accettazione del femminicidio come una guerra fisica, violenta ed ideologica contro le donne.

Ogni morta funziona come uno specchio.

Ogni morta funziona come una lapide che carichiamo su di noi.

Ogni morta è un messaggio di castigo.

Sono femminicidio i crimini contro le trans?


Gli assassinii contro le donne
trans, per via dell’odio sociale o del maschilismo dei loro compagni,
fanno certamente parte del fenomeno del femminicidio

Mi sembra che dovrebbe essere ovvio, nonostante ciò voglio spiegarlo.


Ogni donna trans non smette di essere donna essendo trans. È di più:
smette di essere un uomo e si trasforma in una donna. Nonostante ciò,
non si trasforma semplicemente in una donna ma carica sopra di sé
un’altra forma di odio patriarcale. Lei è soggetta ad un esame maschilista di dover dimostrare se è donna o no.
In molti casi, nelle sue relazioni eterosessuali, accetta forme di
condizionamento che una donna –biologicamente vista come tale– non
accetterebbe, perché in una società patriarcale una donna trans non ha
la “legittimità di esserlo”.


Una donna trans, inoltre, carica
dietro di sé l’odio di aver rinunciato, combattuto, non desiderato o
non accettato, una presunta condizione di vantaggio sociale come è
quella di “appartenere all’universo del maschio” e per questo la
misoginia che si scatena contro di lei ha una grande carica violenta.
C’è un grande desiderio di annichilirla.


Separare i femminicidi delle donne trans dai femminicidi delle donne
biologicamente concepite come donne è indebolirci, è fare il gioco
dell’omofobia, del maschilismo e dello stesso patriarcato. Perché loro
condividono la questione di essere donne che non stanno rispettando il
“concetto di esser donne”, e in questo contesto il femminicidio di
ognuna di loro si aggiunge ai femminicidi commessi contro le donne,
contro la nostra libertà e fa parte del medesimo massacro.



Il femminicidio di una donna
trans è provocato dalle medesime regole del gioco del potere patriarcale
dell’insieme dei femminicidi
. Questo dovremmo
comprenderlo nitidamente. È la medesima violenza maschilista e misogina
di controllo del corpo e della vita che si scatena in un femminicidio
contro una donna trans di quello che si scatena contro una donna non
trans.


E se di femminicidi si tratta, gli attori degli uni e degli altri,
agiscono con il medesimo codice del “diritto di disporre della vita
dell’altro”, la cui vita vale meno della sua o la cui vita ha il diritto
di controllare.



Quello che è chiaro è che per comprendere l’assassinio di una donna
trans come femminicidio è necessario intenderlo all’interno di un ambito
femminista di analisi di questo crimine, ed è questo che né lo stato e
neppure il movimento Ellegibiti (LGBT), che si appropriano di queste
morti, vogliono fare.


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La responsabilità dello stato


Noi donne facciamo parte dell’Umanità?


Immaginate se i crimini commessi dalle dittature in America Latina si
trasformassero, in un battere di ciglia, in un problema individuale di
omicidio perché si è comportato male.


Immaginate se di repente i genocidi che l’Umanità giudica come
crimini di lesa umanità perché colpiscono l’Umanità si trasformassero in
un problema personale, individuale, di ciascuno dei morti.


Immaginate se cancellassimo l’Olocausto nazi contro il popolo ebreo, o
se cancellassimo i crimini del colonialismo come errori dei conquistati
per non essersi sottomessi.



Il femminicidio –sebbene sia stato tipificato nel Diritto Penale e in teoria riceva la pena massima– continua
ad essere considerato dal nostro Codice Penale e dai codici penali su
scala mondiale come crimine individuale e non collettivo.



Non sono giudicati come crimini contro le donne, né come crimini contro l’Umanità,
ma il femminicidio è stato collocato all’interno del Codice Penale come
un caso di crimine che si aggiunge agli assassinii, e a tutti gli altri
tipi di crimine di un individuo contro un altro.


Allora la prima operazione che trasforma il femminicidio in un crimine dello stato patriarcale è
nella forma teorica di come è stato concettualizzato dentro il Diritto
Penale. Non ha concettualmente il carattere di crimine contro l’Umanità,
non viene comparato al genocidio e lo stato, in questa misura, non lo
riconosce come un crimine contro le donne in un ordine sociale
patriarcale e, in questo contesto, lo stato non assume in modo diretto
nessun tipo di responsabilità.


Il femminicida attenta alla vita di una donna e non contro la vita delle donne come parte dell’Umanità; questo cambia completamente la narrazione della tragedia in una narrazione personale,
dove quello che si esamina è la vita della donna e non quella del
femminicida. La narrazione non trascende il caso di un uomo concreto che
ha ucciso una donna concreta, per ragioni personali, in contesti
particolari.


Lo stato, non assumendosi nessun tipo responsabilità e di riconoscimento del femminicidio, come crimine analogo al genocidio, non si fa carico della perdita delle donne, né si fa carico della difesa della vita delle donne, in quanto metà dell’Umanità. E
in questo contesto si trasforma in una specie di tacito complice del
femminicida, trasformando il femminicidio in un crimine di stato.


Se intendiamo il femminicidio come effetto di una società
patriarcale, lo stiamo riconoscendo come un problema sociale strutturale
e non come un tipo di crimine –di uno qualunque– che si commette contro
un’altra qualunque.


Il clima che dobbiamo affrontare quando in questo contesto abbiamo un
caso di femminicidio è uno stato che per tutto il tempo ci strofina
sulla faccia, come grande progresso e risultato, l’inserimento della
figura del femminicidio nel Codice Penale. E sembrerebbe che dovremmo
applaudire e ringraziare in ginocchio un simile progresso quando, in
realtà, si tratta di una somma di confusioni concettuali molto
importanti.


Non sono avvocata, né amante del Diritto, per cui chiedo che queste
riflessioni si intendano da un contesto della riflessione politica e
filosofica, che è anteriore alla riflessione concettuale giuridica.


Spogliare il femminicidio del suo contenuto di crimine di lesa
umanità non è stata l’unica operazione che trasforma il femminicidio in
un crimine di stato.



La seconda operazione è stata quella di isolare un caso dall’altro.
Ogni donna che subisce un femminicidio appare come una storia a parte e
in sé stessa. Pertanto, ogni causa è una, e ogni madre, sorella, figlia
o fratello che chiede giustizia si trova afferrata nelle reti di un
processo giudiziario che ha delle caratteristiche che dopo andiamo ad
affrontare. Quello che mi interessa mettere in chiaro in questo è che una vittima si trova isolata dall’altra. Non possono lottare insieme, né stabilire basi di interpretazione comune dei crimini che affrontano. 

Questo divide le vittime e
impedisce non solo che lo stato riconosca il carattere di crimine
contro l’Umanità che ha il femminicidio, ma impedisce che le stesse
vittime possano unirsi, manifestare insieme, delineare la grandezza del
problema, unire le forze e dimostrare che siamo di fronte a crimini della dittatura patriarcale di cui lo stato è una parte organizzatrice.


E voi mi direte che il Diritto Penale è così.

Ripeto: non sono avvocata.

Ma considero che si sono dovute fare delle operazioni concettuali
differenti e che la tradizione liberale di semplice incorporazione di
diritti o di figure penali dentro il medesimo schema, alle donne non è
servito quasi a nulla. Per questo, in realtà, l’incorporazione della
figura del femminicidio ha fatto parte di una rutine del “copia
incolla”, attraverso ong e agenzie di cooperazione, che dentro la nostra
legislazione è stato fatto in modo quasi automatico perché tutto
l’apparato non ha sentito nessun impatto né cambiamento strutturale
nell’aggiungere una figura penale in più.



Isolare le vittime una dall’altra e impedire la collettivizzazione
dei casi trasforma il femminicidio in un crimine dello stato patriarcale
che determina l’impunità del femminicida e l’impossibilità sociale di
costruire nuove forme di coscienza collettiva sul valore della vita
delle donne.


Un torturato, perseguitato e morto per opera di un stato si converte in un crimine di stato.

Una quantità di crimini contro un collettivo per ragioni etniche si converte in un genocidio.

Un femminicidio, invece, non si converte in un crimine contro le donne, contro la società, né ancor meno di lesa umanità.


Si tratta di crimini isolati, di vittime isolate, di carnefici
isolati e si impedisce concettualmente e politicamente l’associazione
delle vittime attraverso la divisione e l’individualizzazione che lo
stesso Diritto Penale impone. Come dire, si incorpora la figura del femminicidio, ma non si cambia in nessuno dei passi la logica di come lo si affronta.


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La narrazione giuridica giustifica il femminicida e promuove l’impunità


La narrazione giuridica di un processo per femminicidio è determinata
non solo dai pregiudizi o dal potere del carnefice, che è sempre
maggiore del potere della vittima. 

Ma è data dalle metodologie del
Diritto Penale: l’accusato è innocente fino a quando non viene provato
il contrario ed è la parte accusatrice che deve dimostrare la sua
colpevolezza. La parte accusatrice, inoltre, non è lo stato ma la madre o
la sorella della vittima. Lì viene ratificata la garanzia
dell’impunità, salvo che nei casi in cui il femminicida sia preso in
flagrante o che si dichiari colpevole, che sono i meno. 

Il
processo per femminicidio, pertanto, è un interminabile esame della
vita della vittima. È un’interminabile somma delle virtù sociali del
carnefice e una banalizzazione del valore centrale che è quello della
vita.
Chi dirime questi processi è lo stato che si
trasforma in complice del femminicida trasformando, pertanto, il
femminicidio in un crimine di stato.


La morte delle donne per femminicidio si diluisce nella rutine
giudiziaria sotto migliaia di carte e grandi confusioni concettuali di
fondo.


A questo bisogna aggiungere i pregiudizi maschilisti dei
professionisti della giustizia, la corruzione che in questi casi
determina sempre il vantaggio del carnefice, perché immancabilmente ogni
uomo ha più denaro, più rilevanza della sua compagna assassinata, quasi
come un riflesso della piramide sociale in cui noi donne ci troviamo:
l’operaio avrà più rilevanza della sua compagna donna di casa o operaia,
e l’impresario avrà più potere e rilevanza della sua compagna. Tutto
questo che è l’unico vantaggio visibile non è altro che l’ultimo gruppo
di fattori che determinano l’impunità sociale del femminicida di fronte
alla vittima.


Diventa chiaro che non solo si sarebbero potute fare le cose in un altro modo, ma che si sarebbero dovute fare in un altro modo.

L’impunità riproduce impunità


Diventa chiaro, anche, che l’unica possibilità che abbiamo è costruire piattaforme collettive,
che diventano molto difficili perché ogni caso penale non solo è un
mondo, ma è spossante: consuma tutte le tue forze. E in questo senso,
chiedere la partecipazione delle vittime ad una seconda istanza
collettiva è chiedere più sangue e consumare completamente le loro vite.
Se tutta la piattaforma dovesse assistere a tutte le udienze e
analizzare tutte le irregolarità che si commettono –dall’autopsia fino
al processo per impedire che sia garantita l’impunità del femmincidio–
noi non ci dedicheremmo ad altro che non sia questo e solo a questo. Per
questo noi abbiamo chiesto e preteso da Gabriela Montaño, presidente
della Camera dei Deputati, una commissione legislativa di verifica
giuridica che centralizzi questo lavoro e che inizi questo lavoro. 

Lo
abbiamo fatto affinché sia chiaro che abbiamo una proposta e che la tesi
su cui ci basiamo è che il femminicidio è un crimine di stato e non la
tragedia personale di Carmen, Andrea, Julia o Verónica. Sappiamo che lo
stato boliviano non ha nessuna volontà di fare questa commissione.
Abbiamo allora formulato questa richiesta come un atto politico e come
un orizzonte di lotta, coscienti che parliamo con una interlocutrice
sorda e che parlare con lei era come “parlare ad un cielo sordo”.


Il femminicidio deve ricevere
il trattamento del genocidio e dovrebbe, pertanto, essere trattato da
tribunali speciali, come crimini di lesa umanità.


Questo è l’orizzonte di lotta.

Questa è la base concettuale per fermare l’impunità.

I crimini di femminicidio sono analoghi ai crimini commessi dalla dittatura.

Trasformando il dolore del femminicidio in lotta per la giustizia


Quello che dobbiamo intendere, avendo nelle braccia i corpi morti
delle nostre amate figlie, compagne, amiche, è che la giustizia
riproduce giustizia e che l’impunità riproduce impunità. Per questo
apprezziamo tutti e ognuno degli sforzi che ogni vittima fa per lottare
per la giustizia, anche se è in mezzo a processi che diluiscono il
delitto, che mettono le vittime sul banco delle accusate, che
relativizzano il valore della vita delle donne, e che si perdono
nell’immensità di una tragedia femminile di grandi dimensioni.


Intendiamo, al medesimo tempo e in modo molto contraddittorio, perché sposta i processi in cui siamo immerse, che proporre il
femmincidio come un crimine di stato è il modo più efficace di lotta:
semplicemente perché al femmincidio bisogna creare una base concettuale
di comprensione femminista del problema.


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Articolo pubblicato su Lavaca con il titolo #NiUnaMenos: Con la sangre como tinta.  
Pubblicato e tradotto in italiano da Comitato Carlos Fonseca