General

Cinque storie per capire la Turchia

il  post, 22 luglio 2016

Una manifestazione a favore di
Erdogan a piazza Taksim, Istanbul, 20 luglio 2016 (Chris McGrath/Getty
Images)


Il potere
nascosto di Fethullah Gülen, l’eterna lotta contro i curdi del PKK e
Cipro divisa in due, tra le cose da ripassare in questi giorni quando si
alza la testa da Pokémon Go.

La
Turchia è un paese molto difficile da capire e da seguire, perché sui
giornali italiani e internazionali se ne parla spesso per cose diverse:
gli attentati dello Stato Islamico (o ISIS), i continui scontri con i
curdi, lo strapotere e l’autoritarismo del presidente Recep Tayyip
Erdoğan, la regolazione dei flussi migratori verso l’Europa, e così via.
Sono tutti argomenti importanti che definiscono la Turchia oggi, sia
nella sua politica interna che nelle sue relazioni con gli altri paesi.
Nonostante se ne parli così tanto, ci sono però ancora molte cose che si
conoscono poco: la meno chiara riguarda i rapporti politici interni al
paese, che hanno portato la scorsa settimana a un colpo di stato tentato dall’esercito, e poi fallito.
Erdoğan ha incolpato del tentato golpe Fethullah Gülen, un religioso
turco che vive in esilio auto-imposto negli Stati Uniti, accusandolo di
far capo a un’organizzazione clandestina che ha l’obiettivo di
sovvertire il potere in Turchia. È una storia complicata al limite del
complottismo, ma che bisogna sapere insieme ad altre quattro cose per
farsi un’idea di che cos’è la Turchia oggi.

Soldati turchi arrestati con l’accusa di avere sostenuto il tentato colpo di stato in Turchia (BULENT KILIC/AFP/Getty Images)

Chi comanda in Turchia: Erdoğan, Gülen, esercito

Da più di dieci anni la politica turca è dominata da Recep Tayyip
Erdoğan, popolarissimo ex sindaco di Istanbul, ex primo ministro e
attuale presidente del paese. Erdoğan ha 62 anni e oggi viene
considerato da molti come l’unico padrone della Turchia,
per il suo governo sempre più autoritario e accentratore. Fa parte
dell’AKP (il Partito giustizia e sviluppo), il partito di orientamento
islamista e conservatore che controlla e gestisce molti aspetti della
vita pubblica nazionale. La Turchia è una democrazia? Si può dire così: è
un paese con un governo democraticamente eletto, ma che oggi è ben
lontano da rispettare gli standard minimi usati per definire una
democrazia (come la libertà di stampa ed espressione, per esempio).

Erdoğan è il principale e più importante centro di potere in Turchia,
ma non è l’unico: ci sono anche i gulenisti e l’esercito. I primi sono i
seguaci di Fethullah Gülen, un religioso di 75 anni che predica una
visione moderata dell’Islam – più filo-europeo e atlantista, che piace
di più all’Occidente – e che dal 1999 vive negli Stati Uniti: attorno a
Gülen sono ruotate molte delle crisi politiche recenti che hanno
coinvolto il governo turco, tra cui il tentato colpo di stato
dell’esercito nella notte tra il 15 e il 16 luglio. 

È credibile
sostenere – come fa Erdoğan – che un uomo in esilio sia in grado di
partecipare alla progettazione di un colpo di stato nel suo paese? È
difficile rispondere a questa domanda senza rischiare di finire in
qualche ardita tesi complottista, ma la risposta di molti esperti è sì.
Negli ultimi anni Gülen ha aumentato molto la propria influenza in
Turchia grazie anche al fatto che molti suoi sostenitori sono entrati a
far parte delle principali istituzioni statali, soprattutto nella
magistratura e nella polizia.

Un
sostenitore di Erdoğan calpesta un’immagine di Fethullah Gülen a piazza
Taksim, Istanbul, 18 luglio 2016 (OZAN KOSE/AFP/Getty Images)
Il terzo centro di potere in Turchia è l’esercito, che dalla
fondazione del moderno stato turco è stato il garante della laicità nel
paese. Diversi osservatori sostengono che nell’ultimo tentato colpo di
stato i militari si siano alleati con i gulenisti in funzione anti-AKP,
nonostante la diversità di opinioni su molte cose. Il tradizionale ruolo
dei militari – che nei decenni passati erano riusciti a completare con
successo tre colpi di stato – aveva fatto pensare che Erdoğan avrebbe
avuto vita breve: nessuno poteva immaginarsi dieci anni fa che il leader
di un partito islamista sarebbe arrivato ad avere un tale potere in un
paese come la Turchia. Quindi se i militari sono così potenti perché il
colpo di stato è fallito?
Per prima cosa va considerato il fatto che
oggi l’esercito turco non sembra così potente come lo era vent’anni fa,
anche per gli sforzi di Erdoğan di limitare il suo potere. In generale
non c’è ancora una spiegazione chiara e condivisa al riguardo: sembra
che il golpe non sia stato appoggiato da diversi militari più alti in
grado e forse a un certo punto c’è stata una divisione interna al fronte
golpista. Alcuni osservatori sostengono che se i militari fossero
rimasti uniti, il colpo di stato avrebbe avuto successo.

Perché Erdoğan è così amato in Turchia?
 
Martedì sera migliaia di persone si sono riunite di fronte al municipio
di Istanbul per manifestare a favore di Erdoğan e contro il tentato
colpo di stato della scorsa settimana, quando già migliaia di persone
erano scese in strada dopo l’appello di Erdoğan a fermare i militari
golpisti. Ersin Korkmaz, un funzionario di 29 anni intervistato dal giornalista del Guardian Patrick Kingsley,
ha detto: «Amiamo moltissimo il nostro presidente. È il nostro miglior
leader dai tempi di Maometto II», cioè il settimo sultano dell’Impero
ottomano, quello che conquistò Costantinopoli nel 1453. Nonostante i
molti dubbi e le critiche ricevute dall’estero, Erdoğan è un leader
popolarissimo in Turchia. 
Alle ultime elezioni, nell’ottobre 2015, il
partito di Erdoğan vinse con una larga maggioranza, anche se non ottenne i seggi necessari per indire un referendum e cambiare la Costituzione.

Sostenitori di Erdoğan a piazza Taksim, Istanbul, 19 luglio 2016 (Kursat Bayhan/Getty Images)
I sostenitori di Erdoğan citano tre ragioni per spiegare la
popolarità del presidente, scrive Kingsley. La prima è sociale: Erdoğan è
visto come un “uomo del popolo”, un rappresentate delle classi basse e
medio-basse, che fino a non molti anni fa si sentivano in qualche
maniera ignorate dai leader della Turchia. La seconda è religiosa: l’AKP
rappresenta quella parte più conservatrice e religiosa della società
turca che si era sentita messa da parte dai tempi di Mustafa Kemal
Atatürk, il fondatore del moderno stato turco. La terza è economica: da
quando Erdoğan ha preso il potere nel 2003 – allora era primo ministro –
il suo governo ha realizzato nuove infrastrutture in tutto il paese –
ponti, strade, linee della metropolitana – e ha migliorato alcuni
servizi statali, come il sistema sanitario.
 

Per il momento queste tre ragioni sono state sufficienti a mantenere
ed estendere il consenso nel paese verso Erdoğan, anche se all’interno
dell’AKP qualche opposizione c’è stata. Per esempio a maggio l’ex primo
ministro Ahmet Davutoğlu – che appartiene allo stesso partito del
presidente – ha annunciato le sue dimissioni,
aggiungendo che non si sarebbe ricandidato alla guida del partito:
Davutoğlu non ha spiegato le ragioni della sua scelta, ma in molti
l’hanno associata a uno scontro con Erdoğan (e lo stesso Davutoğlu non
ha alzato i toni; commentando la sua decisione, ha detto: «Non mi
sentirete dire mai una cosa negativa sul nostro presidente. La mia
lealtà verso di lui rimarrà fino alla fine»). Il governo turco ha
alimentato costantemente l’idea di difendersi dall’accerchiamento e
dalla cospirazione, cambiando nemico di volta in volta: prima i
kemalisti – cioè coloro che difendono l’ordine voluto da Atatürk nel
1923 – poi l’esercito e Gülen. E così sono passati in secondo piano
anche gli scandali di corruzione di qualche anno fa e l’attitudine
sempre più autoritaria di Erdoğan nei confronti di militari, accademici,
giornalisti e oppositori.

I nemici prima di tutti gli altri: i curdi
 

Fino al luglio 2015 sembrava che lo scontro tra governo turco e curdi
avesse superato i suoi momenti peggiori. Nel marzo di due anni prima,
Abdullah Öcalan – leader del PKK, il partito curdo che per decenni ha
combattuto per creare uno stato curdo indipendente – aveva annunciato
una storica tregua che doveva mettere fine alla lotta armata del gruppo
in Turchia e che doveva riportare un po’ di normalità nelle città del
sud a maggioranza curda, sede di scontri violenti tra militanti curdi e
forze di sicurezza turche. Il 20 luglio dello scorso anno un attacco
suicida rivendicato poi dallo Stato Islamico (o ISIS) uccise 32 persone
nella città turca di Suruc, al confine con la Siria. Il governo turco rispose all’attacco bombardando sia lo Stato islamico in Siria sia diversi combattenti del PKK nel nord dell’Iraq. La tregua finì quel giorno.

Da allora gli attacchi compiuti dalla Turchia verso i curdi del PKK e
dei loro simpatizzanti si sono intensificati, complicando ancora di più
una situazione che già era molto caotica. Negli ultimi mesi le forze di
sicurezza turche hanno arrestato centinaia di attivisti curdi,
soprattutto nel sud della Turchia, e hanno attaccato e bombardato il
Kurdistan siriano, un territorio di fatto indipendente creato dai curdi
nel nord della Siria (il Kurdistan siriano confina con il sud della
Turchia, e anche per questo viene visto dal governo turco come una
grande minaccia alla sicurezza e integrità nazionale). 

La situazione si è
complicata ancora di più per la partecipazione dei curdi nella guerra
contro lo Stato Islamico in Siria e in Iraq. Soprattutto in territorio
siriano, dalla metà del 2015 i curdi sono diventati i più affidabili
alleati della coalizione anti-Stato Islamico in Siria, dopo che per mesi
gli Stati Uniti avevano tentato – invano – di sviluppare dei programmi
di addestramento diretti verso i gruppi più moderati di ribelli. La
posizione della Turchia – membro della NATO – ha cominciato a scontrarsi
sempre più visibilmente con quella di Stati Uniti ed Europa. 

Il governo
turco combatteva contro il regime siriano di Bashar al Assad e
soprattutto contro i curdi; la coalizione internazionale combatteva
contro lo Stato Islamico aiutata dai curdi.

 

Un
edificio danneggiato durante gli intensi scontri tra forze di sicurezza
turche e combattenti curdi a Yuksekova, nel sud della Turchia (ILYAS
AKENGIN/AFP/Getty Images)

Queste considerazioni sono importanti quando si valutano le
conseguenze del fallito colpo di stato sulle relazioni tra paesi
occidentali e governo turco: l’arresto di migliaia di soldati
considerati coinvolti nel golpe e il licenziamento di migliaia di persone
che lavorano nel settore dell’istruzione stanno mettendo pressione ai
rapporti tra Turchia e i suoi alleati, ma non sarebbero la sola causa di
un’eventuale rottura. I problemi arrivano da lontano e riguardano sia
il carattere sempre più autoritario del governo di Erdoğan sia una
politica estera sempre più in contrasto con gli interessi dei paesi
occidentali.
 

L’unica capitale europea ancora divisa: Nicosia
 

Che la Turchia non sia uno stato europeo come gli altri è evidente (è
uno dei pochi a maggioranza musulmana, per esempio). Una cosa che non
tutti sanno è che la Turchia è coinvolta in una delle più lunghe e
complicate crisi degli ultimi cinquant’anni in Europa: la divisione di
Cipro in due, tra nord turco-cipriota e sud greco-cipriota. Cipro – la
terza isola più grande del Mar Mediterraneo – è l’unico paese europeo
che ha la capitale divisa in due zone (in maniera simile a Berlino
durante gli anni del Muro, anche se con diverse differenze). 

Nicosia, la
capitale di Cipro, è attraversata da checkpoint militari: non è
possibile passare da una parte all’altra senza fermarsi a un controllo
passaporti. Ci sono ancora delle parti dell’isola controllate dalle
Nazioni Unite – come l’aeroporto internazionale di Nicosia, oggi
completamente in rovina – e altre che sono rimaste basi militari
britanniche (fino al 1960 Cipro era territorio britannico).

La facciata dell’aeroporto internazionale di Nicosia, a Cipro, nel maggio 2015 (Il Post)
La storia recente di Cipro è molto turbolenta. A metà degli anni
Sessanta, quando Cipro era già uno stato indipendente, cominciarono gli
scontri tra i greci ciprioti (la maggioranza) e i turchi ciprioti. La
situazione rimase sotto controllo fino al 1974, quando la Guardia
nazionale cipriota organizzò insieme al “regime dei colonnelli” – la
giunta militare che era al governo in Grecia – un colpo di stato a
Cipro, che portò al potere il nazionalista filo-greco Nikos Sampson. 
Nacque allora la Repubblica Greca di Cipro. In risposta al colpo di
stato, il 20 luglio 1974 la Turchia invase Cipro: prese il controllo del
nord e l’isola fu divisa in due parti dalla cosiddetta “linea verde”. I
segni dell’invasione e della divisione improvvisa dell’isola in due
sono visibili ancora oggi: uno dei posti più incredibili di Cipro è
Varosha, il quartiere meridionale di Famogosta che a metà degli anni
Settanta era una delle più importanti mete turistiche al mondo. Oggi
Varosha è circondata da una recinzione e non c’è modo di entrarci senza
rischiare di provocare la reazione dei militari turchi (e non è
consigliabile). 
È chiamata la “città fantasma”: è completamente
disabitata e all’interno tutto è rimasto come allora.
Nel 83 i turchi ciprioti istituirono un governo indipendente, la
Repubblica Turca di Cipro del Nord, non riconosciuta da alcuno stato al
mondo ad eccezione della Turchia. Da allora vanno avanti dei colloqui
tra le due Cipro per arrivare a una soluzione del conflitto, che
formalmente non è ancora stata raggiunta. Oggi il presidente di Cipro –
che a differenza di Cipro greca non fa parte dell’Unione Europea e non
ha l’euro come moneta – è Mustafa Akinci, che appartiene alla sinistra
moderata ed è sempre stato un sostenitore della riunificazione
dell’isola (Erdoğan ha detto di Akinci che «le sue orecchie avrebbero
bisogno di sentire quello che esce dalla sua bocca»: non gli piace
molto, insomma). 
Alcuni degli ostacoli che impediscono di risolvere
definitivamente il conflitto tra le due Cipro sono legati alla posizione della Turchia:
finché i soldati turchi non se ne andranno da Cipro, dicono i
greco-ciprioti, sarà impossibile arrivare a una soluzione. Ma è anche un
problema per la Turchia, il cui processo di avvicinamento all’Unione
Europea è stato rallentato più volte a causa proprio della questione
cipriota.

La Turchia nell’UE? 
L’ultimo problema: l’immigrazione
 

Di una possibile integrazione della Turchia nella Unione Europea si
discute ormai da molti anni: il processo per l’entrata nella UE è
iniziato nell’ottobre del 2005 e inizialmente si pensava che si potesse
concludere in 10-15 anni, ma da allora i progressi sono stati molto
lenti. Uno degli ostacoli principali è stato senza dubbio il fatto che
la Turchia è un paese a maggioranza musulmana. 

Si sono poi aggiunti
altri motivi: la questione di Cipro e l’opposizione del governo turco ad
avere rapporti con Cipro greca (per esempio nel luglio 2012 la Turchia
si rifiutò di parlare con le autorità di Cipro durante i sei mesi
ciprioti di presidenza del Consiglio dell’Unione Europea); le
preoccupazioni sulla libertà di espressione in Turchia, sul trattamento
delle minoranze religiose e sul rispetto dei diritti di donne e bambini;
e il timore che la Turchia arrivasse ad avere un peso enorme nel
Parlamento europeo, dove i seggi per ciascun paese sono distribuiti
sulla base della popolazione. 

Uno dei leader europei più critici nei
confronti dell’entrata della Turchia nella UE è stata la cancelliera
tedesca Angela Merkel, soprattutto dopo la violenta reazione della
polizia contro i manifestanti del parco Gezi nel 2013.

Negli ultimi anni Erdoğan ha adottato spesso un approccio poco
conciliante con l’Unione Europea e ha espresso in diverse occasioni la
sua frustrazione per le lentezze del processo di entrata della Turchia
nella UE. Erdoğan si è anche lamentato che le riforme adottate dalla
Turchia e chieste dalla UE siano state sottostimate dai paesi europei. 

Negli ultimi anni, comunque, la Turchia ha cominciato a negoziare un
regime di liberalizzazione dei visti, che dovrebbe garantire ai
cittadini turchi la libertà di viaggiare nell’area Schengen. Su questo
punto sembrava essersi aperto uno spiraglio pochi mesi fa,
quando l’Unione Europea concluse l’accordo con la Turchia sui migranti:
il governo turco si sarebbe fatto carico dei migranti – impedendo loro
di attraversare il confine e arrivare in Grecia – in cambio di soldi e
della possibilità di liberalizzare i visti.

Anche su questo punto però si sta andando a rilento. Erdoğan ha
annunciato di recente la sua intenzione di non introdurre le norme
antiterrorismo richieste dall’accordo che il governo turco ha trovato
con la UE per la regolazione dei flussi dei migranti, e richieste per
completare il processo di liberalizzazione dei visti: «Noi andiamo per
la nostra strada, voi per la vostra», ha detto Erdoğan. Giovedì il
viceprimo ministro turco ha poi annunciato che la Turchia sospenderà la
Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come misura inclusa nei tre
mesi di stato d’emergenza annunciati mercoledì da Erdoğan in seguito al
tentato golpe.

FONTE:  Il post