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Bosnia Erzegovina, i musulmani ribelli

di Andrea Oskari Rossini, 07 luglio 2016.

Sarajevo (Foto borntosnore, Flickr)

Il fenomeno terrorista nel paese balcanico affonda le proprie
radici nella guerra degli anni ’90, e nella presenza di gruppi che si
pongono come alternativi alla comunità islamica ufficiale.

Il 18 novembre 2015, pochi giorni dopo gli attentati di Parigi, Enes
Omeragić, un giovane di Sarajevo, è entrato in una sala per scommesse
nel quartiere periferico di Rajlovac e ha aperto il fuoco su due
militari bosniaci, uccidendoli. Rintracciato poche ore dopo nella sua
abitazione, Omeragić si è ucciso a sua volta, facendosi saltare in aria
con una bomba a mano.

L’episodio non è stato praticamente
registrato dai media europei, ancora sotto choc per i fatti di Parigi.
Rappresenta tuttavia l’ennesimo attentato riconducibile al terrorismo
islamista avvenuto nel paese balcanico a partire dal 2010.

Nel
giugno di quell’anno venne fatta esplodere una bomba fuori dalla
stazione di polizia di Bugojno, in Bosnia centrale. Un poliziotto, Tarik
Ljubuškić, morì, e sei suoi colleghi rimasero feriti. L’anno dopo, a
Sarajevo, Mevlid Jašarević aprì il fuoco con un kalashnikov
contro l’Ambasciata degli Stati Uniti, ferendo un poliziotto. 

Infine
l’anno scorso, il 27 aprile, Nerdin Ibrić ha assalito con un fucile
automatico i militari della stazione di polizia di Zvornik, nella parte
del paese a maggioranza serba, gridando “Allah Akbar” e uccidendo
l’agente Dragan Đurić prima di venire ucciso a sua volta.

La tipologia degli attentati avvenuti in Bosnia Erzegovina1
è diversa dalle stragi perpetrate dall’Isis nelle grandi capitali
europee. Ad essere colpiti sono obiettivi stranieri, oppure
rappresentanti delle locali forze di sicurezza, militari o poliziotti. I
civili non sono stati finora coinvolti, il che lascia presupporre una
strategia diversa dei gruppi radicali nei Balcani. Sporadicamente,
singoli individui escono allo scoperto, ma il ruolo principale assegnato
alla regione sembrerebbe essere quello di base logistica, ad esempio
per il trasferimento di uomini o armi, e soprattutto di serbatoio di
potenziali “foreign fighters”.

Secondo il professor Vlado
Azinović, docente all’Università di Sarajevo e recentemente co-autore,
con Muhamed Jusić, della ricerca “Il richiamo della guerra in Siria: il contingente bosniaco dei combattenti stranieri”,
sarebbero circa 250 i bosniaci che hanno lasciato il paese per andare a
combattere nel Medio Oriente, tra il 2012 e la fine del 2015. Non si
tratta di una cifra particolarmente rilevante in termini assoluti, se
comparata ad esempio a quella dei “foreign fighters” provenienti dalla
Francia, dal Belgio, dal Regno Unito o dalla Germania2.
In termini relativi però, cioè riportati alla grandezza della
popolazione (circa 3.800.000), non è un dato insignificante. 

La Bosnia
Erzegovina, inoltre, ha alcune specificità, sotto il profilo del rischio
terrorismo, che la distinguono dalla maggior parte degli altri paesi
europei.

La prima è la frammentazione delle diverse forze e
agenzie di sicurezza, nel contesto della complicata struttura
istituzionale definita dagli accordi di Dayton. 

Uroš Pena, vice capo del
Direttorato per il Coordinamento delle forze di polizia del paese, ha
recentemente dichiarato ai media locali che “la condivisione delle
informazioni è un grosso problema. Ogni agenzia si tiene strette le
migliori informazioni di cui dispone. Tutti hanno l’obbligo di
condividere le informazioni, ma questo non avviene… 

Non abbiamo
neppure una chiara definizione delle giurisdizioni.”

Il secondo
elemento di rischio, per la Bosnia Erzegovina, è la relativa facilità
con cui, a vent’anni dalla fine della guerra, è ancora facile procurarsi
armi. Quando sono stati firmati gli accordi di pace, molti hanno
preferito conservare le armi, ad ogni buon conto. Queste armi possono
ora finire nelle mani sbagliate nei modi più diversi, vendute sul
mercato nero anche solo per aggiustare temporaneamente il bilancio
familiare.

Il fatto invece che circa metà della popolazione della
Bosnia Erzegovina sia di fede, cultura o tradizione musulmana, l’aspetto
in genere più sottolineato dai media europei che si sono occupati in
passato del fenomeno terrorista nel paese, non rappresenta di per sé un
elemento di rischio. 

La comunità islamica locale (Islamska Zajdenica,
IZ) ha sempre denunciato con forza il terrorismo e la violenza,
invitando i propri fedeli a tenersi distanti dai gruppi radicali che
cercano di sovvertire le regole su cui da secoli si fonda l’Islam in
questa regione.

Questi gruppi, secondo il giornalista Esad Hećimović, autore di “Garibi – Mujaheddini in Bosnia Erzegovina tra il 1992 e il 1999”,
hanno cominciato a manifestare la propria presenza nel paese a partire
dal 1992, anno di inizio della guerra in Bosnia. Alcune centinaia di
combattenti3, provenienti da paesi arabi o dall’Afghanistan, si unirono alla brigata “El mujahid” dell’Armija BiH4,
o a formazioni minori, combattendo dalla parte dei bosniaco musulmani. 

I
mujaheddin non portarono in Bosnia solo le proprie armi e volontà di
combattere, ma anche un’interpretazione dell’Islam molto diversa da
quella dei bosniaco musulmani. Dopo la guerra, l’influenza dei gruppi
radicali continuò in modi diversi, attraverso il lavoro dei predicatori,
l’assistenza finanziaria o la creazione di un sistema alternativo di
welfare paragonabile, secondo il professor Azinović, a quello posto in
essere da Hamas nei territori palestinesi.

Oggi, venti anni dopo
la fine della guerra, è difficile valutarne la diffusione e influenza in
Bosnia Erzegovina. Data la conformazione del paese, si tratta di una
presenza localizzata soprattutto in villaggi isolati, in zone montuose o
rurali, dove i gruppi che si pongono come alternativi alla comunità
islamica ufficiale conducono una sorta di vita sociale e religiosa
parallela. Non tutti sono naturalmente legati alle reti del terrorismo
internazionale, né tutti credono nell’uso della violenza per la lotta
politica o religiosa. Si tratta di una galassia molto diversificata. 

Alcune delle figure più rappresentative erano ritenuti essere, in
passato, Nusret Imamović, oggi probabilmente in Siria, e più
recentemente Husein Bosnić (Bilal), condannato il 5 novembre scorso
dalla giustizia bosniaca a 7 anni di reclusione per le attività di
reclutamento di giovani da inviare nelle guerre del Medio Oriente.

La
comunità islamica ufficiale della Bosnia Erzegovina rappresenta una
sorta di “diga” contro la diffusione di questi gruppi, ed è proprio la
IZ che ha recentemente fornito alcuni dati sulla presenza delle comunità
ribelli, definite dai media locali come “paradžemate”, che sarebbero
oggi 64. 

La massima autorità dell’Islam in Bosnia Erzegovina, il reis
ulema Husein Kavazović, si è in più occasioni scagliato duramente contro
queste “para-comunità”, esortando le autorità a impedire loro di
esercitare le proprie funzioni. 

Nei mesi scorsi, tuttavia, si è svolto
un interessante confronto tra la IZ e le “paradžemate”, lontano dagli
occhi indiscreti dei media. La comunità islamica ufficiale rivendica
unicamente per sé il diritto di scegliere le guide spirituali (imam), e
in generale di educare i fedeli, e ha cercato di ricondurre le comunità
ribelli all’interno della propria giurisdizione. 

Il difficile percorso
però, secondo quanto reso noto dalla stessa Islamska Zajednica, non ha
sortito grandi risultati e, al termine di settimane di colloqui, solo
14, delle 38 che hanno partecipato al processo, hanno accettato di
(ri)entrare a far parte della comunità ufficiale.

 1. Nel testo anche come “Bosnia”, “BiH”

 2. V. le statistiche riportate da Radio Free Europe/Radio Liberty e cfr. anche Foreign Fighters: An Updated Assessment of the Flow of Foreign Fighters into Syria and Iraq , The Soufan Group, dicembre 2015

 3. La metà degli effettivi della brigata “El mujahid”, forte di poco meno di 2.000 soldati, erano stranieri

 4. Esercito della Bosnia Erzegovina

FONTE: Balcanicaucaso