General

Barconi e navi da guerra: rotte degli affari

o7 luglio 2016.

Viviamo in democrazy. La democrazia schizofrenica. 
Dove
contraddizioni ipertrofiche ottengono un ampio diritto di cittadinanza.
Dove si coltiva l’illusione di poter fermare persone in fuga con le
nostre avarizie di popoli sazi e saturi (magari costruendo muri negli
stessi paesi di partenza) e, allo stesso tempo, si forniscono i
lanciafiamme a quei “pompieri incendiari” – pensiamo solo a Qatar e
Arabia Saudita – che innescano o aggravano i conflitti nelle terre da
cui scappano milioni di persone.



Se il carattere proprio dell’età che stiamo vivendo non fosse
l’opacità, ci apparirebbe chiara come l’acqua cristallina di Lampedusa
la profonda saldatura che lega i barconi carichi di disperati alle navi
cariche di missili, vendute a chi alimenta guerre. E se la memoria,
appunto, non fosse labile e avariata dovremmo ricordare come il potere
che piange, ipocritamente, quando il Mediterraneo si trasforma in tomba
liquida, è lo stesso che stappa le bottiglie al nuovo contratto militare
miliardario sottoscritto con nazioni a rischio.



L’ultimo esempio si è avuto il 16 febbraio scorso, con la firma
dell’accordo fra Italia e Qatar per l’allestimento della loro nuova
flotta navale militare. Un contratto da 5 miliardi di euro, di cui 3,8
miliardi a Fincantieri, per la costruzione di quattro grandi corvette,
due pattugliatori minori, equipaggiate con i più moderni sistemi
elettronici e di armamento; e 1,1 miliardi a MBDA Italia per i sistemi
missilistici antiaerei e antinave. L’entusiasta ministra della difesa,
Roberta Pinotti, l’ha definito «il più importante contratto mai firmato
dall’Italia con un paese straniero per quanto riguarda la parte navale».
Non solo. Ma per la ministra quell’accordo dimostra «come si muove bene
il “sistema Italia”». 

Governo e aziende del settore hanno lo stesso
obiettivo.



Un affare, quello con il Qatar, che segue di pochi mesi i contratti
firmati da Finmeccanica-Leonardo con il Kuwait per la fornitura di 28
velivoli Thyphoon del consorzio europeo Eurofighter: valore 7-8 miliardi
di euro, metà dei quali arriverà nelle casse italiane. Per
l’amministratore della multinazionale tricolore, Mauro Moretti, «il più
grande successo commerciale del gruppo».


E la conferma che l’Italia sta espandendo la sua collaborazione
militare e industriale con importanti paesi del Golfo arriva anche
dall’annuale relazione della presidenza del consiglio sull’export
armiero: tra i primi dieci paesi a cui vendiamo materiale bellico
troviamo, come nel 2014, gli Emirati arabi uniti (304 milioni di euro) e
l’Arabia Saudita (258 milioni).



Paesi del Golfo, quelli citati, che guidano la coalizione
arabo-africana in conflitto nel vicino Yemen. E il Qatar, nonostante
stia cercando in questi mesi di ricalibrare la sua politica regionale,
riposizionandosi accanto all’Arabia Saudita, per anni ha contribuito ad
accendere la rivalità intra-sunnita nell’area
nordafricana-mediorientale, sostenendo conflitti in Siria, Egitto,
Libia. Nazioni da cui fuggono milioni di persone, con la speranza di
arrivare sulle coste europee.



Ancora oggi il regime egiziano di al-Sisi attribuisce a Doha il ruolo
di sponsor dei Fratelli musulmani; ruolo che giustifica una brutale
azione repressiva nei confronti dei suoi cittadini, soprattutto se
giornalisti, come nel caso dei dipendenti dell’emittente televisiva
qatarina, Al Jazeera. E sebbene l’Egitto si riveli sempre più
un potere autocratico e intollerante, l’Europa continua ad arricchire il
suo arsenale. Il Cairo acquisterà entro il 2020, grazie a finanziamenti
sauditi, 7 navi da guerra, un satellite militare e 24 caccia Rafaele:
tutti sistemi d’arma francesi.



Parigi si muove in proprio. Roma e Berlino la seguono. 
Ciò rivela che
le decisioni comuni di Bruxelles sul tema migrazione (vedi articolo sul
migration compact a pag. 36) sono solo una risposta
militare-umanitaria, figlia di una logica di minaccia-compassione. In
realtà, c’è un vuoto che nessuno vuole coprire. Lo disse già 17 anni fa
James Orbinski, di Medici senza Frontiere, nel suo discorso
d’accettazione del premio Nobel: «L’umanitarismo è la reazione dei
cittadini al fallimento della politica». 

Anche per Filippo Grandi, neo
Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, sul tema delle
grandi migrazioni «la risposta umanitaria è insufficiente. C’è bisogno
di leadership e di azione politica». Ma è coerente un’azione politica
che propone di selezionare persone mentre scappano da case che vanno a
fuoco, con la vendita di lanciafiamme a signori che incendiano quelle
case?


La risposta, purtroppo, rischia di essere monotona: noi veneriamo i
diritti umani, fondamento della nostra civiltà, a meno che non
interferiscano con le nostre convenienze.

FONTE: Nigrizia