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Abbiamo chiesto ad alcuni italiani di origini straniere se l’Italia è un paese razzista

di Flavia Guidi, 15 luglio 2016

L’uccisione del richiedente asilo nigeriano
Emmanuel Chidi Namdi—e le varie reazioni che ha scaturito questo
fatto—ci hanno posto nuovamente di fronte a una domanda ben precisa:
l’Italia è un paese razzista e xenofobo?
Per alcuni, Libero in primis,
in realtà non c’è alcun problema; anzi, il problema è rappresentato
dalla “sinistra buonista” che vuole costringere tutti “ad accettare di
buon grado le invasioni barbariche.” Per altri,
invece, quello che è successo a Fermo è l’espressione di una montante
intolleranza nei confronti degli stranieri o di chi è percepito come
tale.
Chiaramente, è difficile arrivare a una risposta univoca su un tema del genere. Secondo alcuni recenti sondaggi,
l’Italia sarebbe un paese profondamente intollerante e anche
disinformato sulla reale presenza numerica degli stranieri in Italia; e
in più, ci sono rapporti come i Libri bianchi sul razzismo che consegnano un riquadro tutt’altro che edificante.

Personalmente,
almeno tra le persone che frequento, non conosco nessun razzista,
quindi è facile ignorare il problema, così come dare per scontato che
esso riguardi soltanto persone arrivate qui da poco o ‘non italiane’.
Abbiamo quindi deciso di restringere il campione chiedendo a nostri
coetanei—italiani di seconda generazione, nati e cresciuti in Italia, o
stranieri trasferitisi qui da un certo periodo di tempo—per capire se le
cose siano cambiate negli ultimi anni e quanto la percezione del
‘diverso’ possa sfociare nell’intolleranza.

Angelo Hu, 21 anni, studente.

Nato a Firenze da genitori cinesi.
L’Italia di base non è razzista. Sono nato e cresciuto
qua, e quello che la gente mostra, ultimamente sempre di più, non è
razzismo ma paura. La situazione attuale mi preoccupa: il caso di Fermo, l’odio verso i
rom, la rabbia contro i profughi, sono tutte cose che anche se non
attribuibili direttamente al razzismo mostrano una chiusura che non può
che spaventare e che spesso impedisce alle persone di ragionare.
I miei
genitori sono migranti economici, sono venuti in Italia molti anni fa,
quando la Cina ancora non era economicamente florida. Ma la violenza, nei confronti della minoranza cinese, è
soprattutto verbale e crescendo non sono mai stato vittima di episodi di
razzismo esplicito. Certo, capitava che a scuola i bambini mi
prendessero in giro—e i bambini possono essere molto cattivi— ma quello
non era razzismo, era ingenuità. Del resto, quegli stessi bambini ora
sono miei amici.
Lidia, 25 anni, contabile.
 
Nata a Milano da genitori eritrei.
Ho vissuto per la maggior parte della mia vita adulta a
Londra, un covo multietnico dove mi sono sentita veramente a casa—e per
come la conosco io, la Brexit ha molto poco a che fare con il razzismo e
molto di più con la cattiva informazione. Comunque, paragonandola con
Londra, è ovvio che l’Italia è molto più chiusa alle culture e razze
diverse. Detto ciò, non credo sia razzista; il razzismo al quale ho
assistito è dettato esclusivamente dall’ignoranza nei confronti di
culture diverse e di come funziona nel resto del mondo. 
Io parlo da persona completamente occidentale, uguale
per stile di vita e riferimenti culturali a qualsiasi mio coetaneo
italiano, e forse anche per questo mi sono sempre sentita accettata.
Dall’altra parte, questo non significa che non abbia assistito a scene
di razzismo. Ne ho realizzato l’esistenza qualche anno fa, quando un
ragazzo di colore che conoscevo
è stato ucciso

per aver rubato dei biscotti. In
quello stesso periodo uscivo con un gruppo di 10-15 ragazzi di origine
africana: una volta eravamo al McDonald’s, e dei poliziotti in borghese
hanno chiesto ad alcuni di noi il documento, in quanto in zona c’era
appena stato uno stupro.

Alle volte, poi, mi trovo di fronte a una diffidenza
che sono sicura non incontrerei se non fossi di colore: in banca o alle
poste, i controlli e le domande sono sempre più dettagliate, vengo
guardata sempre con un velo di sospetto. Credo però che le cose in
Italia stiano migliorando.
Sonia, 25 anni, studentessa.


Nata ad Arezzo da genitori peruviani.

Faccio fatica a dire in modo netto se l’Italia è un
paese razzista o no. Ci sono diverse sfaccettature: più che
profondamente razzista, io direi che l’Italia è intollerante. Esistono
sicuramente forme indirette, che mostrano un certo tipo di
mentalità nei confronti del diverso. Ogni tratto somatico diverso da
quello standard in Italia viene considerato esotico: mi sento chiedere
in continuazione se sono italiana. 
La storia che raccontano i miei è molto diversa dalla mia:
sono venuti in Italia dal Perù per lavorare e le discriminazioni che hanno
subito, soprattutto nei primi anni, sono state incredibili. Questo si è
tradotto nel fatto che fin da subito hanno rifiutato qualsiasi tipo di
condotta che potesse confermare lo stigma di immigrato: non hanno mai
voluto fare richiesta per la casa popolare, non hanno mai chiesto le
varie agevolazioni scolastiche, hanno fatto di tutto per farmi capire
che dovevo andare bene a scuola e dovevo integrarmi—non tutti gli
stranieri sono trattati allo stesso modo.
Anni, 22 anni, studentessa.
 
Nata in Cina, vive a Milano.
In questi 16 anni in Italia ho vissuto in un paesino
di duemila abitanti, a Padova
e a Milano. La situazione cambia di città in città, ma in Italia un
fondo di razzismo c’è, vista anche
l’immigrazione di origini molto recenti. Essendo cinese, i commenti
razzisti che mi vengono
fatti—e del resto gli unici episodi di razzismo di cui sono stata
vittima—sono di natura economica: i cinesi “non pagano le tasse,” “fanno
soldi in nero,” “rubano il lavoro agli italiani.” Qualcuno che nel
locale fa il commento stupido lo trovo sempre, come una
certa ostilità diffusa nei miei confronti.
Ovviamente niente a che vedere con quello che ha
vissuto mia madre, che quando è arrivata non trovava nessuno che le
volesse affittare la casa in quanto cinese. Del resto, però, anche la Cina ha la sua dose di razzismo, quindi non
me la sento di guardare quello italiano come un caso a sé, e di anno in
anno mi sembra che le cose stiano migliorando.
Rodrigue, 33 anni, atleta.

Nato in Camerun, vive a Firenze.
Nella mia vita ho subito degli episodi di razzismo, ma
in fondo non credo che l’italiano di per sé sia razzista. Ci sono i
criminali e gli idioti, come in tutti i paesi del mondo, ma non esiste
una cultura xenofoba.
Il razzismo, secondo me, lo senti quando le persone
intorno a te te lo fanno sentire: quello è razzismo vero, il razzismo
individuale. Ecco, io personalmente tra le persone che ho frequentato,
anche superficialmente, non ho mai conosciuto chi mi trattasse
diversamente semplicemente perché ero nero. Ho avuto la
fortuna di praticare sport, tramite il rugby mi sono integrato subito.
Capita che le persone sugli spalti mi fischino o mi facciano il verso
della scimmia, ma quella è ignoranza e mi scivola via.
Ho notato, viaggiando per lavoro, che il razzismo aumenta al Sud,
e questo è strettamente collegato al fatto che il razzismo sia
cresciuto in tutt’Italia negli ultimi tempi. Ha a che fare, infatti, con
la paura, con la crisi economica. Quando i soldi sono meno, i posti di lavoro
scarseggiano, lo stato sociale viene a mancare, ce la si prende con il
diverso, c’è bisogno di un nemico—non credo che questo sia dimostrazione
che l’Italia è razzista.
Martín, 29 anni, cameriere.
 
Nato in Perù, vive a Milano.
Su di me direttamente non ho mai sentito del razzismo,
non ho mai pensato che i miei tratti somatici abbiano rappresentato una
limitazione. Con questo non voglio dire che in Italia non ci sia: è
ovunque, anche tra gli immigrati stessi, è una guerra tra poveri.
Episodi come quello di Fermo succedono quando il razzismo latente che
pervade la società esplode. 
In Italia, del resto, non siete abituati alle differenze. Ma
dipende anche da con chi sei, a che ora, con quale aspetto. Mi capita
spesso di uscire con un gruppo di latini: quando siamo insieme agli
occhi della gente diventiamo immediatamente un branco di immigrati, e
l’ostilità nei nostri confronti è palpabile. Quello che ho notato,
dall’altra parte, è un grande gap generazionale: i giovani sono molto
più aperti rispetto alle persone anziane. Questo mi fa ben sperare.
 
Ismaele, 25 anni, studente.
 
Nato a Verona da padre senegalese.

Non
ho mai subito degli episodi di razzismo, e non sono mai stato
discriminato in ambito lavorativo o accademico. Ciononostante, sono
circondato da una base di sospetto: ho sempre bisogno di farmi conoscere
un po’ dalla gente prima che abbandonino la diffidenza. Mi capita di
chiedere un accendino o delle indicazioni e di vedere la perplessità
negli occhi del mio interlocutore—io che non ho nessun accento,
figuriamoci chi ce l’ha. Di base quindi, credo che in Italia un po’ di
razzismo ci sia. 

È vero anche che l’Italia è diffidente contro ogni tipo di
diversità (di colore, di orientamento sessuale, di religione):
l’italiano è spaventato di fronte a ciò che non conosce bene ma si apre
quando ci entra in contatto. Il fatto che negli ultimi anni abbiamo
avuto sempre di più a che fare con persone di colore, immigrazione, e
diversità, fa sì che le cose stiano gradualmente migliorando, noto meno
ostilità. Lo stesso discorso lo posso fare per quanto riguarda la
differenza tra Verona (dove ho vissuto fino a quattro anni fa) e Milano:
Verona, essendo una città chiusa e piccola, è molto più razzista
rispetto a Milano. 
FONTE: Vice