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15 anni sono abbastanza per fermare il golpe globale

di Gianluca Ricciato, 20 luglio 2016.

A 15 anni dal G8 di Genova
imperversano ovunque Stati di polizia senza scrupoli, Ttip deliranti,
poteri transnazionali criminali, guerre, crisi economica ed ecologica,
alienazione individuale e sociale: cosa serve ancora per farci capire
che mettersi in discussione e costruire un altro mondo è necessario e
urgente?

Per molte e molti che l’hanno vissuto, o con cui hanno avuto un contatto, il summit dei G8 del 2001 a Genova è stato un grande male e un grande bene.
Già questa stessa contraddizione ha spesso segnato l’interpretazione di
quegli eventi. In alcuni casi ha prevalso la sensazione di terrore, di
orrore rispetto a una violenza cieca, in altri ha prevalso il desiderio e
il bisogno di andare avanti e costruire qualcosa di nuovo, di inedito
rispetto alla situazione che avevamo intorno. Probabilmente in
moltissime persone queste emozioni hanno convissuto al proprio interno e
si sono alternate. In me è stato così e forse lo è ancora.


Credo che una spiegazione possibile di questo è che il g8 genovese è avvenuto in un momento generale di profondo mutamento, al passaggio di millennio,
e non è stato l’unico episodio: c’era un movimento globale che si stava
formando (il popolo di Seattle, ma prima ancora i movimenti
latinoamericani del Chiapas e del Brasile soprattutto) e una nuova forma
di gestione dell’economia capitalista che iniziava ad avere delle forme
di espressione più violenta, non solo attraverso i conflitti più
eclatanti (il crollo delle Torri Gemelle, le guerre in Medio Oriente) ma
anche nella vita quotidiana dei
popoli occidentali, dove le forme di alienazione lavorativa e la
cosiddetta crisi economica erano e sono le dirette conseguenze dei nuovi
assetti planetari, della crisi delle risorse energetiche e del
deterioramento delle risorse ambientali.


La cosa positiva invece, secondo me, è stato il salto di paradigma ontologico della politica (per
chi c’è stato) cioè in parole più semplici le nuove pratiche di
relazioni sociali, di gestione sostenibile delle risorse, di forme di
comunità e di mutuo aiuto, di nuove economie che sono apparse
all’orizzonte, ed è questa la risorsa inedita che è solo all’inizio e
che naturalmente ha trovato tutte le resistenze possibili, interne ed
esterne, individuali e collettive, alla sua diretta attuazione.


C’è chi dice oggi che
dopo Genova non c’è stata nessun altra manifestazione in Italia di
quella portata. Che un discorso collettivo su questi argomenti non ci
sia stata. Io mi ricordo cose diverse. Mi ricordo intanto una serie di
idee che circolavano: agire locale pensare globale, cambiare il mondo
senza prendere il potere, un altro mondo è possibile, l’80% di risorse
destinate al 20% della popolazione mondiale, per citarne alcune. Ma poi
mi ricordo tutta Italia invasa di bandiere arcobaleno contro la guerra
in Iraq, le manifestazioni con centinaia di migliaia di persone per la
pace e subito dopo per l’articolo 18. Un forum sociale a Firenze con
una serie incredibile di intersezioni tematiche, dai tavoli sui diritti
civili, sulle istituzioni totali, sull’immigrazione, sull’acqua,
sull’energia, sui rifiuti, sull’economia neoliberista,
sull’informazione, sulle guerre e la nonviolenza, e tante altre ancora.



Ma soprattutto, in
questi quindici anni c’è stato il consolidamento di realtà esistenti e
la nascita di nuove, su tanti argomenti che sono collegati al desiderio di uscita dalle tenaglie delle forme di potere attuali che
ci rendono spesso invivibile la vita: penso alle pratiche di sovranità
alimentare per l’agricoltura naturale (i mercati di Genuino Clandestino,
la rete nazionale dei Gas, le reti di economia solidale), alle banche
del tempo, alle social street e alle nuove forme di welfare dal basso, a
tutti i comitati popolari territoriali di resistenza alle nocività (a
partire dalla Val di Susa contro l’alta velocità naturalmente, ma anche a
Venezia contro il Mose, a Scanzano Ionico contro le scorie radioattive,
contro il Muos in Sicilia, contro il Tap in Salento, fino al
coordinamento No Trivelle, e l’elenco sarebbe lunghissimo). Ma non solo:
i movimenti e le associazioni per la Decrescita, la rete italiana degli
ecovillaggi, i movimenti universitari e Occupy, la rete per
l’educazione libertaria, i nuovi movimenti sulle questioni di genere
(Usciamo dal silenzio contro la violenza maschile sulle donne, Educare
alle differenze contro l’attacco fondamentalista delle “teorie del
gender”, fino al Sommovimento NazioAnale), il Forum Droghe che ha
raccolto per anni le lotte contro le istituzioni totali e per un’uscita
dall’oscurantismo nella gestione del disagio, e infine, ma sicuramente
non ultimi, tutti i coordinamenti territoriali che hanno tentato di
prendere in mano, con pratiche quotidiane e spesso faticose, le
conseguenze peggiori dell’emigrazione forzata dai paesi più martoriati, e
che è forse la questione più urgente che ci troviamo a vivere in questo
momento. 
E non è un elenco assolutamente esaustivo, è solo quello con
cui sono entrato in contatto io.


E’ chiaro che contro
tutto questo agiscono ogni giorno le resistenze più o meno legali, più o
meno mafiose e più o meno violente del sistema capitalista e dei nuovi
organi decisionali sovranazionali, un sistema che più va in crisi più diventa feroce per
cercare di sopravvivere. Ed è chiaro che contro le pratiche di
cambiamento c’è anche la nostra capacità individuale, i nostri problemi,
il fare i conti con i nostri desideri individuali e le nostre capacità
(mentali, fisiche, economiche). E anche la capacità o meno di uscire
dalla dittatura del denaro che sottomette tutto il resto, che abbiamo dentro e che invade tutto, la politica istituzionale, il lavoro, ma anche le associazioni, le cooperative e spesso anche gli spazi sociali.


Ma se un senso ce
l’hanno queste nuove forme di politica, o meglio di convivenza umana che
io credo siano emerse – in Italia, in Europa, in Sudamerica, ma anche a
Kobane nella comunità spontanea resistente all’Isis, ad esempio – il
senso è che rispetto al Novecento non c’è più un Sol dell’avvenire da
aspettare, un paradiso futuro, un mondo delle idee fuori di noi. Il
cambiamento non è facile né scontato, ma è importante non sottovalutarne
la portata. 
Quando qualche decennio fa si diceva che il personale è politico,
che il cambiamento non avviene se si teorizzano delle cose e si
praticano delle altre (lo si diceva e lo si dice del patriarcato, e lo
diceva il femminismo, ma è lo stesso pensiero che è alla base delle
filosofie orientali, ad esempio), quando si dice questo si stanno
minando le fondamenta di un sistema filosofico e politico, che consiste
anche semplicemente in come pensiamo di sapere le cose
Sembra paradossale, e forse non lo è: nel momento in cui siamo più
individualizzati, più disconnessi dalla realtà e connessi al virtuale,
in cui la nostra materialità sembra sempre più rarefatta, proprio in
questo contesto è successo che abbiamo iniziato a mettere in
discussione, o almeno a chiederci, la provenienza di quello che
mangiamo, degli oggetti che usiamo, il modo di fare relazioni e i
modelli di vita, di famiglia, di amicizia che ci sono arrivati dal
passato, il modo stesso di lavorare, di “usare il nostro tempo”, libero o
schiavizzato, che forse è il fondo di tutti i problemi, visto che la prima risorsa che sembra mancare nelle nostre vite è proprio il tempo,
almeno questa è la litania. 
Saccheggiando a memoria il famoso “Discorso
dello schiavo” di Silvano Agosti, è possibile che un quadro di Van Gogh
costi centinaia di milioni e una vita umana due milioni al mese, bene
che vada? Come costruisco la vita lavorando sei/sette giorni alla
settimana? Allora forse bisogna iniziare a non mettere più fiorellini
nelle gabbie. E riprenderci l’umanità. E tornare a pensare che il mondo
non ci appartiene, ma siamo noi che apparteniamo al mondo.


Quello che ho
imparato allora, e che ho iniziato a fare mio – io e tante persone che
mi stavano intorno – era il fatto che non fosse più possibile parlare di
democrazia quando le decisioni sulla vita e la morte delle persone di
tutto il mondo venivano prese dal Fondo Monetario Internazionale, dalla
Banca Mondiale, dall’Organizzazione Mondiale per il Commercio, dal G7 e
dal G8, cioè luoghi al di fuori dalle forme democratiche stabilite
dagli stati nazionali – giuste o sbagliate che fossero queste forme,
visto anche che hanno portato a questo stato di cose. Quello che è
successo dopo, semplicemente, ne è stata la diretta conseguenza. 
E’ per
questo, più che mai, che oggi bisogna ritrovare le occasioni di
condividere nuovamente e a un livello più ampio tutto quello che già si
fa e che si può ancora fare. La discussione sul TTIP in
corso è sicuramente un’emergenza, anche nel senso che sta riemergendo
un discorso collettivo sulle nuove forme del potere transnazionale nelle
pratiche del cosiddetto “libero scambio”.


Ma un’occasione lo è
stata il referendum sulle trivellazioni e i dibattiti sulla politica
energetica, e le questioni in ballo vanno ben al di là del quesito
referendario, e sarebbe stato così anche se avesse vinto il Sì. Come ho
già scritto altrove, il disastro petrolifero occorso a Genova proprio nel giorno del referendum sembra una congiuntura astrale, la foto dei volatili del Polcevera intrisi di petrolio un segnale che la Terra ci sta richiamando a quello che ancora non vogliamo capire fino in fondo. Ed è successo proprio a Genova.  
Quest’anno a luglio, non sembra quasi vero, saranno quindici anni da quel luglio 2001,
non sembra vero visto che nulla è stato risolto, la verità sui massacri
è stata occultata eppure un sacco di noi, centinaia di migliaia, forse
milioni di italiane e italiani, sanno come sono andate le cose. Potrebbe
essere l’occasione giusta per ricominciare una pratica collettiva e
politica verso un’esistenza migliore, questo luglio 2016?

FONTE: La bottega del Barbieri