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Siamo meno onesti di quanto pensiamo

di Jeff Guo, 01 Giugno
2016.

(Charlie Crowhurst/Getty Images)


Diciamo bugie e
facciamo i furbi ma troviamo sempre giustificazioni – oppure
decidiamo di dimenticarlo – per preservare l’immagine che abbiamo
di noi.


Nei
primi anni del Duemila alcuni ricercatori della University of
Massachusetts condussero uno studio sulla disonestà quotidiana:
reclutarono qualche centinaio di studenti, li divisero in coppie e
chiesero a ogni coppia di conversare per dieci minuti. 
I
ricercatori ripresero ogni incontro con una videocamera nascosta e
mostrarono le registrazioni alle coppie, chiedendo a ogni persona di
segnalare tutte le bugie che avevano detto durante la conversazione.
In media ogni studente in quei dieci minuti aveva mentito quasi
due volte, e alcuni di loro avevano raccontato fino a 12 bugie. 
Se si
fossero affidati alla loro memoria, molti studenti forse
avrebbero detto di essere stati onesti, ma le registrazioni li
hanno messi di fronte alla verità. 
«Mentre si
rivedevano nelle registrazioni hanno scoperto di aver
detto molte più bugie di quanto pensavano», raccontò uno
dei ricercatori all’epoca dello studio.



Lo studio ha esaminato
solo una conversazione di dieci minuti; cosa succederebbe però se
andassimo alla ricerca dei momenti di disonestà nella nostra vita di
tutti i giorni? 

A tutti piace credere di essere persone oneste, ma in
realtà la maggior parte di noi non supererebbe molti test morali:
diciamo alle persone di non aver visto i loro messaggi, rubiamo le
penne al lavoro, saltiamo i tornelli e prendiamo troppi tovagliolini
nei fast food. 

Forse rubare un paio di tovagliolini è solo un
peccato veniale, certo, e a volte mentire è una cosa carina da fare,
soprattutto se stiamo cercando di non ferire i sentimenti di un’altra
persona. È questo il modo in cui funziona: salvaguardiamo l’opinione
che abbiamo di noi stessi, in parte, trovando giustificazioni alle
nostre bugie; inventiamo scuse o ci convinciamo della trascurabilità
delle nostre colpe.



Secondo uno studio di
Maryam Kouchaki, professoressa assistente di management alla
Northwestern University, e Francesca Gino, professoressa di gestione
aziendale ad Harvard, c’è qualcos’altro che ci aiuta a far
fronte alle nostre debolezze morali: siamo molto bravi a
dimenticare le nostre azioni scorrette. 

«Le persone
attribuiscono molto valore alla propria moralità, e quindi sono
spinte a dimenticare i dettagli delle loro azioni poco etiche, in
modo da poter continuare a considerarsi persone oneste», hanno
scritto Kouchacki e Gino nel loro nuovo studio,
pubblicato la settimana scorsa dalla rivista scientifica
americana 
Proceedings
of the National Academy of Sciences
. Le due professoresse di economia hanno trovato un nome accattivante
per questo tipo di comportamento: “amnesia non etica”.



Per cercare di dimostrare
come i ricordi delle nostre azioni poco edificanti svaniscano
più in fretta, Kouchacki e Gino hanno condotto una serie di
esperimenti. 

In uno di questi hanno chiesto ad alcune persone di
giocare a testa o croce, scommettendo dei soldi; a distanza di due
giorni i partecipanti, che avevano la possibilità di mentire sul
risultato del lancio della moneta, sono stati sottoposti a un
test di memoria: le persone che avevano imbrogliato avevano ricordi
più vaghi rispetto a chi era stato onesto. 

Si potrebbe pensare che
le persone che tendono a imbrogliare abbiano in generale una
memoria peggiore; Kouchacki e Gino hanno però scoperto che tutti i
soggetti che avevano partecipato all’esperimento – sia
quelli che avevano imbrogliato che chi era stato onesto –
avevano le stesse probabilità di ricordare cosa avevano
mangiato a cena due giorni prima. 

In generale gli “imbroglioni”
non sembravano avere problemi di memoria: piuttosto di
dimenticare selettivamente le situazioni in cui il
loro comportamento non era stato etico.



Il primo esperimento
aveva però un problema: le ricercatrici non erano in grado di
determinare chi aveva imbrogliato e chi no. Kouchacki e
Gino ne hanno quindi condotto un altro, online, in cui alcune
persone selezionate in modo casuale non avevano la possibilità
di imbrogliare. L’esperimento prevedeva due versioni di un gioco di
previsioni; in una di queste era possibile imbrogliare
facilmente (il soggetto poteva cambiare la propria previsione dopo
l’evento, senza poter essere scoperto). 

A due giorni di distanza, i
ricordi delle persone che avevano giocato alla versione in cui era
possibile imbrogliare erano più vaghi rispetto a chi aveva
giocato onestamente.



Questi risultati indicano
come ci sia qualcosa legato all’atto di imbrogliare a influenzare
negativamente la memoria delle persone, e che quindi non è vero che
chi imbroglia abitualmente ha di per sé una memoria peggiore: quando
durante un gioco imbrogliare è impossibile, le persone tendono a
ricordare meglio. Immediatamente dopo il gioco Kouchacki e Gino hanno
chiesto ai partecipanti come si considerassero: si ritenevano persone
moralmente corrette e degne di fiducia, o si vergognavano di se
stesse? 

Due giorni dopo, le persone che avevano detto di vergognarsi
sono state quelle con maggiori probabilità di non ricordare
chiaramente l’evento.



«Maggiore è la
dissonanza dopo aver imbrogliato, più diventano vaghi i ricordi
legati alle azioni non etiche», si legge nello studio, che
purtroppo non è in grado di dirci se i ricordi di quelli che
avevano imbrogliato erano davvero spariti, se li stavano reprimendo,
oppure se stavano mentendo alle ricercatrici. 

Il motivo è che
lo strumento principale usato da Kouchacki e Gino per misurare i
ricordi delle persone è stato una specie di sondaggio, con cui
hanno chiesto ai partecipanti di raccontare se avevano
ricordi chiari o meno, e quanto li ritenevano affidabili. Una
valutazione soggettiva di questo tipo non fornisce molte informazioni
sul meccanismo che si innesca nel cervello delle persone, e non ci
dice per esempio se la vergogna interferisce con la costruzione dei
ricordi, o con il loro recupero. 

Per scoprirlo si potrebbero
condurre altri esperimenti che sfruttano la scansione del
cervello o farmaci che influenzano i ricordi delle persone. Per il
momento abbiamo uno studio che conferma molte delle nostre
intuizioni: l’istinto di preservare la nostra dignità e la nostra
autostima è sorprendentemente forte.




© 2016 – The Washington Post