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Se questo è un uomo. Testimonianze dai campi governativi nel nord della Grecia

di Stefano Danieli e Andrea Panico, 29 giugno 2016.



Le immagini trasmesse dai TG nazionali, fissate dagli stessi occhi increduli che ad ogni strage, davanti ad ogni Alyan, si chiedevano come potesse essere possibile tanto orrore, sembrano essere sparite con lo sgombero di Idomeni.

Affogate nell’oblio dell’ennesima migrazione che occuperà una o due
pagine nelle ristampe dei libri di storia, nei licei e solo tra dieci
anni.

Diecimila anime, braccia e gambe e sogni caricati sui pullman della
polizia. Condotti verso i campi militari, da cui, a eccezione dei
migranti stessi e in determinate fasce orarie, per chiunque è
impossibile entrare o uscire se non dietro rilascio di un apposita
autorizzazione concessa dal governo.

Quindi pochi scatti e video, ai giornalisti è di fatto vietato l’ingresso.
 

Anche le ONG e le associazioni devono ricevere uno speciale permesso per
poter operare nei campi militari. Tutti coloro che non facevano capo a
organizzazioni strutturate sono rimasti esclusi dal circuito della
cooperazione.

Per gli attivisti e i volontari indipendenti,
impegnati spesso parallelamente in attività di denuncia, gli sgomberi
degli ultimi campi non ufficiali hanno segnato un punto di rottura con
le vecchie modalità di agire.
 

Siamo da loro quando possiamo. Quando le autorità non ci bloccano. È
inconcepibile dover scavalcare una rete o un muro per distribuire cibo o
regalare un paio di scarpe. Arriviamo e ci chiedono quando sarà la
prossima volta che torneremo a trovarli. Gli hanno negato il diritto ad
inseguire il sogno di una vita lontano dalla guerra, obbligandoli a
vivere nei campi militari gli stanno negando il presente di una vita da
uomini liberi. Di respirare aria e immaginare un domani.
”, scrive
Elsa dal suo smartphone, all’interno della piccola utilitaria con cui
sta girando la Grecia con l’obiettivo di monitorare le condizioni dei
campi militari.
 

Scardinata ogni certezza di giustizia sociale e tutela dei diritti, la
volontà ultima delle istituzioni sembra essere a tutti gli effetti
quella di arginare il problema migranti confinandoli in campi lontani
dai centri abitati. Nascondendo la vergogna arrivata dall’oriente come
si fa con la polvere sotto il tappeto.

Ostacolate, ed in alcuni casi rese impossibili, le relazioni sociali ed i
contatti con il mondo esterno; tale politica di collocamento dei
richiedenti asilo ha creato ghetti in cui, nella maggior parte dei casi,
le situazione igieniche sono pessime, la connessione wifi è assente o
lenta, la distribuzione del cibo quasi ovunque è pessima e in scarsa
quantità.

 
“Indipendentemente dalle singole condizioni dei campi militari,
quello che manca a noi siete voi. Camminare nel limbo di Idomeni era
diverso dal deambulare tra le schiere di tende militari dello stesso
colore. I volontari non erano più amici, voi eravate diventati parte
delle nostre famiglie. Voi siete parte delle nostre famiglie!”
, esclama Mosa, continuando a fumare la sua Marlboro di contrabbando, sfiancato dal digiuno imposto dal ramadan.
 

In questo contesto di emarginazione programmata, l’Unione europea
continua ad osservare i risultati delle sue politiche migratorie in
religioso e consenziente silenzio.

A poche decine di chilometri da Salonicco, dove i trentacinque gradi e
l’umidità affannano i turisti che si muovono tra le strade del centro in
cerca di un albergo, nella zona industriale vivono i reduci del lungo
viaggio in mare, gli umiliati di Idomeni.

Sindos Frakapori

Il
nulla intorno a circondare l’hangar che, secondo i dati dell’UNHCR, già
al 10 di giugno ospitava 568 persone, oggi poco più di 800 quasi tutti
siriani di origine curda.

Non ci sono fermate dell’autobus nelle vicinanze che permettano ai
migranti di raggiungere con agilità il centro abitato. A Sindos
Frakapori si ha l’impressione di essere fuori dal mondo.

L’odore pesante che satura l’aria, penetrando le narici, arriva dalle
fabbriche di collanti e vernici adiacenti il centro militare.
 

Lungo il perimetro esterno, a pochi metri dalle inferriate e dal filo
spinato che circonda il campo, gli scarti industriali ostacolano i
sentieri che i migranti utilizzano giornalmente. Materiali che i
proprietari delle fabbriche hanno lascito a marcire lì dove i bambini si
rincorrono respirandone le polveri.

Il filamento lanoso della foto è materiale di coibentazione per tetti. Per quanto non è possibile definire dalle foto se il materiale delle
lastre sia cancerogeno, solitamente tale tipo di coibentazione è tipico
dei tetti di eternit.

L’enorme capannone, in cui sono state
piantate la maggior parte delle tende militari in cui vivono fino a
sette persone appartenenti allo stesso gruppo familiare, è buio.
L’illuminazione artificiale proveniente dalle lampade fissate sul tetto è
debole e insufficiente.

All’apertura del centro l’hangar era pieno di rifiuti che sono stati
semplicemente trasportati nel cortile interno e accatastati, lasciati a
marcire sotto la pioggia e a deteriorarsi sotto il sole.



Le condizioni igieniche sono pessime. Di fronte alle toilette infestate
da sciami di mosche, i lavabo sono presi d’assalto da donne intente a
lavare i panni nelle bacinelle.

Hanno le gambe devastate dalle punture degli insetti che proliferano
lungo i rigagnoli che si creano ogni qualvolta vengono aperti i
rubinetti.

I migranti raccontano che il cibo che viene distribuito dai militari è
pessimo e le porzioni scarsissime. Alle famiglie, l’esercito
distribuisce normalmente una ventina di litri di latte ogni trenta
giorni. Per i neonati sono disponibili solo due pannolini al giorno.

Il solo modo per scappare dall’isolamento del campo è stato, sin
dall’inizio, la connessione virtuale con amici e parenti che avveniva
tramite la connessione internet che tuttavia continua ad andare in crash a causa dell’inadeguatezza del sistema rispetto al numero di utenti connessi.
 

A Sindos, come nella maggior parte dei campi, i migranti ci raccontano
che l’attività dell’Unhcr è inesistente. Gli operatori dell’agenzia
delle Nazioni Unite si vedono sporadicamente e non forniscono alcun tipo
di assistenza legale o consulenza. La popolazione del centro è
totalmente abbandonata a se stessa e alle notizie che, confuse, arrivano
da fuori.

Anche a loro era stata promessa la pre registrazione e il paradiso
Europa al momento dello sgombero di Idomeni. Anche loro sono sfiancati
ed esausti.

Anche loro continuano a non trovare risposte agli incubi.

Oreokastro

Oreokastro è l’ennesimo capannone
industriale, riciclato dalle istituzioni, adibito a ricevere la
popolazione migrante che stazionava a Idomeni.

Ospita ufficialmente 1500 persone, uomini, donne e bambini quasi tutti arabi.

Altri 80, nonostante la disponibilità di posto nelle tende, vivono nel
campo pur non essendo mai stati registrati, ciò comporta la difficoltà
di provvedere al cibo. “Chi non è registrato riceve solo gli avanzi, quello che alcuni di noi riescono a portargli.”, spiega Mustafa, l’ennesimo senza nome del campo.
 

Le tende dentro l’hangar sono posizionate in perfetto ordine ed i panni,
stesi sui tiranti, ricordano le immagini che arrivavano a metà degli
anni novanta dai campi profughi in Kosovo.

Al momento le sole organizzazioni che prestano il loro servizio
nell’enorme hangar sono la Apostolic Church, l’UNHCR, Medicins du Monde
e Team Humanity.

Un particolare programma degno di apprezzamento è quello portato avanti da Acts of Mercy
che si sta occupando di tamponare e curare lo stress post traumatico
dei migranti. L’organizzazione ha programmi di riabilitazione specifici
per bambini, per le sole donne e un gruppo di sostegno per entrambi i
sessi.
 

Mohammed indossa una t-shirt riciclata da chissà quale campagna
elettorale per le regionali in Sicilia. Ha venticinque anni e la barba
curata, racconta degli abusi subiti dai militari nel campo. “Ogni
volta che esco per prendere aria, per allontanarmi, al mio rientro i
militari mi obbligano a seguirli in una stanza. Lì mi ordinano di
spogliarmi completamente e cominciano a frugare tra i miei indumenti per
accertarsi che non porti con me droghe o armi.

 

Le tende sono state piantate dentro e fuori l’hangar per insufficienza
di spazio, all’interno non esistono letti né brandine e gli spazi vitali
sono minimali. Il cibo che viene distribuito dai militari, insieme ad
una bottiglia d’acqua al giorno, in razioni ragionevolmente
insufficienti per il sostentamento di un uomo adulto, è pessimo.

Assad denuncia la differenza di trattamento che intercorre tra alcuni
immigrati che sono arrivati per primi ad Oreokastro, seguendo la NGO
Team Humanity, e coloro che sono arrivati successivamente. 

Alcuni
ricevono cibo e indumenti da Team Humanity. Ogni qual volta mi presento
da loro la risposta è sempre la stessa. No. E ogni qual volta cerco di
controbattere la sola cosa che mi sento rispondere è: se ti va bene è
così, altrimenti te ne vai. Ho solo questa maglietta e una camicia di
ricambio.

 

Assad non è l’unico a denunciare tale comportamento da parte della NGO
che, precedentemente, operava ad Idomeni. Numerosi volontari
indipendenti ricordano l’ambiguità con cui l’organizzazione si muoveva
nel campo e l’influenza che la stessa aveva su molte delle famiglie
siriane.
 

Una sera” ricorda A. “un PK della polizia si è fermato
davanti la loro postazione. Durante quei giorni gli agenti distribuivano
flyers invitando la popolazione di Idomeni ad abbandonare il campo e
dirigersi verso quelli militari. Il giorno dopo Team Humanity stava
smontando le proprie tende e convincendo molti nostri vicini di tenda a
seguirli.

 

Tra coloro che vivevano a Idomeni e sono stati costretti a spostarsi in
Oreokastro a seguito dello sgombero ci sono anche i creatori della
Refugee TV, che continuano con la loro ironia ad ideare e creare
programmi che denunciano la situazione in cui versano i rifugiati.
Mahmoud, Basil, Mustafa e Sameer, si dicono tutti molto preoccupati
della lentezza con cui sono iniziate, con pauroso ritardo, le procedure
di registrazione dei richiedenti asilo. 

Siamo in questo paese da
mesi, chi da anni. È incredibile che solo adesso sia stato avviato un
sistema che potesse sostituire Skype
.”



Le
storie dai campi militari di Sindos e Oreokastro, i visi conosciuti ad
Idomeni o ad Eko ed Hara, nascosti adesso dietro reti e muri di cemento
armato, si intrecciano alle vicende di coloro che hanno rifiutato la “reclusione” dei centri governativi.
Fratelli, amici e compagni di viaggio salutati con la promessa e la
speranza di rincontrarsi in Germania, in Francia o in Olanda.

Nizar dal campo di Sindos piangeva quando giurava che “non era questo ciò che sognavo di costruire per la mia famiglia“.
E i suoi occhi annegavano nella sensazione di morire giorno dopo
giorno, in un’agonia senza fine dove neanche le quotidiane bugie
sull’avvio a breve della nuova procedura di richiesta di asilo alleviano
gli strazi del cuore.

C’è un fiume di vite lasciate in coda a Salonicco, ad Atene e nei pressi
di quello che era il campo di Idomeni. Per lo più ragazzi non
accompagnati e uomini senza famiglia che si sono rifiutati di entrare
nei campi governativi o, una volta condotti con la forza, ne sono
scappati nei giorni immediatamente successivi.

Mohammed e Ahmed
sono tornati da poco dall’ennesimo tentativo di superare la frontiera,
costretti alle tre del mattino a chiedere un posto letto dopo essere
stati malmenati, picchiati a sangue dalla polizia greca. Domani
tenteranno un nuovo assalto alla fortezza Europa.

Venticinque anni, ventiquattro ore per cambiare identità e diventare
un’altra persona, seppellire nell’ippocampo i ricordi a breve termine
delle bombe su Aleppo.
 

Nel momento in cui si chiude una rotta altre più complesse e più
onerose, inevitabilmente, si apriranno. Esistono sentieri irti, strade
meno battute, ma i migranti sono purtroppo abituati ad assumersi rischi
sempre più pericolosi se il loro fine è arrivare alla meta desiderata.
Anche se sono consapevoli che basta poco per tornare al punto di
partenza o ritrovarsi nel sonno profondo della morte.

I loro volti stanchi tradiscono un ramadan sofferto e pesante vissuto
tra fughe notturne, botte e soprusi. Domani si riparte, l’itinerario è
pronto. Che sia via terra, via mare, o perchè no volando, sanno quanto
tutto ciò sia rischioso ed imprevedibile, ma una luce di speranza riempe
i loro occhi.

FONTE: Meltingpot