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Se la storia è solo memoria e censura

di Massimo Carlo Giannini, 23 giugno 2016.



Per una curiosa coincidenza un giornale ha messo in vendita come allegato il Mein Kampf di Adolf Hitler
solo pochi giorni dopo che il Senato aveva approvato una legge, votata
da tutti i principali partiti di maggioranza e di opposizione, volta a
inasprire le pene per il reato d’istigazione all’odio razziale. È stata
così introdotta nel codice penale un’

aggravante per chi affermi in pubblico la «negazione della Shoah
ovvero dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei
crimini di guerra». 

Fra questi due avvenimenti vi è un interessante
nesso che concerne gli atteggiamenti che questi fatti hanno prodotto
nell’opinione pubblica. Mentre, infatti, la diffusione del Mein Kampf
ha riscosso un’ampia quanto comprensibile ripulsa morale,
l’approvazione quasi unanime della nuova norma di legge ha incontrato il
plauso pressoché generale dei mezzi di comunicazione. Tutto bene,
dunque? Non proprio. 

Circa la legge contro i “negazionismi
i media si sono limitati a riportare alcune voci favorevoli e altre
contrarie, senza dar spazio alla contrarietà delle associazioni
scientifiche degli studiosi di storia, che avevano sin dall’inizio messo
in guardia come l’idea stessa di punire la negazione di uno o più
crimini contro l’umanità rappresenti un passo gravido di conseguenze. Si
afferma in pratica la possibilità di una verità storica “ufficiale”,
affidata non al libero e serio dibattito scientifico, ma al giudice e,
in ultima istanza, al potere politico. Ciò significa che, da oggi in
poi, qualunque maggioranza parlamentare (e non, come è giusto, gli
studiosi scientificamente accreditati) potrà legiferare sul passato
“dicibile”.
 

D’altro canto le critiche, più che legittime, alla messa in vendita di Mein Kampf apparse sui giornali e nei social network
hanno espresso due giudizi diversi (l’operazione è inopportuna; è un
libro che non deve essere pubblicato), ma concordi nella motivazione: è
l’opera di un criminale, primo responsabile della Shoah,
e bisogna evitare che il popolo italiano, così culturalmente debole,
possa esserne influenzato. Qualcuno ha evocato l’immagine di una bomba
messa in mano a un bambino. L’idea del popolo fanciullo e bisognoso di
tutela appartiene a una visione illiberale e censoria della società, di
evidente matrice controriformista. 

Nel Cinquecento, secolo di durissimi
conflitti religiosi e politici, si credeva che il veleno delle opinioni
contenute nei libri protestanti sarebbe stato in grado di “contagiare”
attraverso la lettura i fedeli e di trasformarli in eretici. Di qui la
proibizione e la censura persino di quegli autori che, sebbene
cattolici, riportavano passi di autori protestanti al fine di
confutarli, con l’argomento che finivano per farsi veicolo involontario
della diffusione di idee sovversive.
È facile oggi ravvisare negli
atteggiamenti di intellettuali e politici il rimpianto forse inconscio
del sovrano illuminato – naturalmente da loro – tutore del volgo
ignorante. 

In questo modo però essi alimentano la confusione fra
giudizio etico e politico e giudizio storico e una sottile aura
censoria, da esercitare naturalmente per il bene dei sudditi-cittadini a
rischio di “contagio” dottrinario. Ciò nell’illusione ideologica,
purtroppo assai diffusa, che i libri, anche i più sconci e offensivi per
la nostra sensibilità, siano di per sé causa del male. Si diventa
insomma nazisti perché si legge il Mein Kampf quando invece è
forse vero il contrario. 

Senza poi contare che la propaganda più o meno
apertamente filonazista, fascistoide e xenofoba circola in dosi massicce
nei meandri di internet, nei linguaggi intrisi di violenza dei
videogiochi e negli ammiccamenti e sparate di politici e giornalisti in
cerca di audience. Un certo compiacimento è ravvisabile persino nell’uso
di frasi, vere o presunte, attribuite a Hitler per tacciare l’Unione
Europea e la Banca Centrale Europea di “euro-nazismo”.
 

Tanto lo scandalo per la diffusione del Mein Kampf,
quanto il plauso per la recente norma che colpisce i “negazionisti”
dello sterminio degli ebrei e degli altri crimini contro l’umanità hanno
in comune un elemento: la deriva antiscientifica del dibattito politico
e culturale in una materia, l’uso pubblico della storia, che
richiederebbe ragionamento e ponderazione e non tifoserie da stadio. Né,
dal punto di vista della ricerca storica, è possibile invocare
un’eccezione per il libro di Hitler che, come ha scritto con un’immagine
poeticamente evocativa Wlodek Goldkorn, «non è un libro, anche se
sembra esserlo, perché è stato scritto per dar vita a un programma
politico il cui scopo era la distruzione di tutti i libri e di tutto il
sapere». 

Secondo questa logica dovremmo non pubblicare (e forse non
leggere o proibire?) una gran quantità di testi contenenti programmi
politici ripugnanti, a cominciare da quelli di Stalin e Mao, dato che i
loro autori sono senza dubbio colpevoli di crimini contro l’umanità.
Forse invece bene farebbe il Ministero per i Beni culturali a promuovere
la traduzione dell’edizione critica tedesca del volume hitleriano, che
lo contesta punto per punto togliendo ogni alibi a nazisti presenti e
futuri, posto che costoro leggano libri.
 

È chiaro che la costante sovrapposizione fra giudizio etico e politico (in questo caso la condanna del nazismo
e dei suoi crimini) e giudizio storico e critico (l’analisi di come,
perché e in quale contesto il nazismo abbia operato) costituisce il vero
gravissimo problema culturale che accomuna l’Italia a tutte le
democrazie occidentali: effetto sia della progressiva emarginazione
dell’insegnamento della storia e dell’oscuramento dell’educazione civica
nelle scuole e nelle università, sia della trasformazione profonda che
negli ultimi decenni ha accompagnato la cultura di massa. 

La conoscenza
del passato, basata sulla lettura di libri di storia, appare sempre più
distante dalla realtà della vita collettiva, dove invece scorre un
presente senza passato e senza futuro in cui la conoscenza degli snodi
fondamentali delle vicende storiche finisce per divenire solo
percezione, o al massimo memoria personale, familiare e di gruppo. Ma
tale forma di “costruzione” del passato, funzionale alle più diverse
scelte identitarie (nazionali, religiose, ideologiche, sessuali, e ormai
anche di “consumo”) tende sempre più ad annichilire la funzione
necessariamente critica della storiografia.
Che, dal canto suo, stenta a svolgere una rinnovata funzione di critica
nei riguardi dei potenti, sempre desiderosi di (ri)scrivere la storia,
lasciando magari i cittadini a cullarsi nell’illusione dei meccanismi di
auto-informazione forniti da internet nel segno di una conoscenza da fast food.
 

La storia come esercizio critico lascia così il posto alle emozioni che narrazioni romanzate, fiction
televisive, racconti giornalistici e persino videogiochi sono in grado
di destare nel pubblico. Dove quindi non conta più l’analisi critica dei
documenti, delle diverse fonti e delle interpretazioni della
storiografia, ma solo la trama emotiva delle affabulazioni e della
comunicazione, in grado di condizionare a tal punto il dibattito
pubblico da lasciar larvatamente riemergere volontà censorie
inaccettabili in una società che voglia essere democratica.



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