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L’editoria francofona in Libano

07 Giugno 2016.

Cattedrale maronita di San Giorgio-1890

Grafias, un bel magazine online che si occupa del mondo della letteratura e delle riviste internazionali, ha pubblicato un profilo dell’editoria francofona in Libano e ha intervistato una delle fondatrici di Tamyras, casa editrice libanese dedicata alla letteratura in francese. 

L’articolo menziona gli editori francofoni attivi in Libano, e il
ruolo del Salone del libro francofono, che si tiene ogni anno a Beirut,
poche settimane prima di quello arabo.



Ma come ci è arrivato il francese in Libano?  

Ebbene,
non è stato “importato”  con il mandato assegnato dopo la prima guerra
mondiale alla Francia sui territori della Grande Siria, che fino a poco
prima avevano fatto parte dell’Impero Ottomano.


L’arrivo del francese, e dell’inglese, ha a che fare con la storia
delle missioni – e delle scuole – gesuite e protestanti che gravitavano
nell’area del Levante arabo da tempo, ed è una storia molto affascinante
dal punto di vista linguistico che però fece una vittima: l’arabo.


Molto prima del mandato francese, le due principali istituzioni
culturali e accademiche della regione, entrambe basate a Beirut,
impartivano i propri corsi in francese, arabo e inglese: il Syrian Protestant College fu fondato dai biblisti di Boston nel 1866, e dal 1879 rese obbligatorio l’introduzione dell’inglese, scalzando l’arabo.  

L’Università Saint-Joseph
fu invece fondata dai gesuiti francesi nel 1881 e sancì il definitivo
successo del francese sull’inglese come lingua della c”ultura alta”.
Entrambe le istituzioni segnarono il declino dell’arabo come lingua
della cultura e della scienza.


Lo ricorda così lo storico libanese Samir Kassir nel suo libro Beirut. Storia di una città
(Einaudi, 2009): 

“Grazie alla rapidità delle comunicazioni, l’attiva
diplomazia della monarchia di Luglio poi quella del Secondo Impero
rendevano quotidianamente tangibile l’influenza francese. […] In un modo
o nell’altro, bisognava farsene una ragione; il francese aveva il
«privilegio del favore popolare e delle amministrazioni», si legge in un
carteggio del 1855. Era stata così impressa la svolta che avrebbe
durevolmente contribuito all’immagine francofona – come non si diceva
ancora – di Beirut e del Libano nel XX secolo, e che, per inciso,
avrebbe indebolito la scelta a favore dell’inculturazione da parte dei
gesuiti, molti dei quali non sentiranno più il bisogno di imparare
l’arabo”.[1]



Kassir indaga anche la storia dell’introduzione iniziale dell’inglese,
accanto al francese, e racconta di come il Syrian Protestan College,
l’antenato dell’odierna American University of Beirut (AUB), aprì nel
1866 su impulso di un gruppo di biblisti americani originari di Boston,
approdati in Medio Oriente attorno al 1820 con l’obiettivo di
evangelizzare ed “educare” le popolazioni locali. Dopo numerose
difficoltà e ostruzionismo da parte della congregazione di Boston, i
biblisti riescono ad aprire diverse scuole per ragazzi e a fare il salto
di qualità nel 1866. 

La futura AUB impartisce lezioni in arabo:

“Nel progetto accademico del Syrian Protestant College era stato
specificato senza ambiguità che la lingua di insegnamento sarebbe stata
l’arabo. La scelta era conforme allo spirito dei missionari, i quali man
mano che arrivavano, avevano tutti imparato l’idioma del paese. Ma col
1869, si era notato un primo scarto da tale indirizzo in una
dichiarazione del presidente Bliss il quale, notando l’assenza di testi
di riferimento in questa lingua, esprimeva il timore che il corpo
insegnante non fosse sufficiente ad assicurare i corsi avanzati del
dipartimento letterario. […]. La questione della lingua di insegnamento
fu posta esplicitamente in una riunione del Board of Trustees, a New
York, nel 1875, alla presenza di Bliss e di David Dodge. In un primo
tempo, fu presa la decisione di rendere l’inglese obbligatorio per tutti
gli studenti. […]. L’arabo cessò di essere la lingua deputata
all’insegnamento nell’anno accademico 1879-80”.[2]



Ritorno al presente con le parole di Tania Hadjithomas Mehanna di Tamyras, raccolte appunto da Grafias:


(Grafias) Ma anche gli editori che pubblicano libri in francese sono libanesi.

(Tamyras) Sì. In Libano coesistono tre culture principali: anglosassone, araba e francese.
Amiamo molto tutt’e tre, ed è anche per questo che i libanesi sono così
aperti: non è solo una questione di linguaggio, è piuttosto una
questione di cultura. Cerchiamo di fare del nostro meglio per promuovere
la lingua e la cultura francesi, e noi di Tamyras in particolare siamo
interessati a dare maggiore potere alla lingua francese. Ci interessa
molto aprirci al resto del mondo diffondendo la nostra letteratura e le
tematiche che affrontiamo. Vogliamo guardare sempre più al Mediterraneo,
perché crediamo che dovrebbe esistere una maggiore unione e una
maggiore possibilità di dialogo tra i paesi dell’area mediterranea.
Adesso quando si parla di Mediterraneo si pensa immediatamente ai
migranti e ai loro corpi in mare, ma tutta quest’area riveste un
interesse straordinario dal punto di vista storico, architettonico e
culturale. Il nostro è un mare estremamente importante, è questo il
nostro messaggio. E per questo portiamo i nostri autori a Parigi,
Bruxelles, Bologna. 

Andiamo alle fiere del libro e quando non possiamo
andarci facciamo in modo che i nostri libri siano comunque presenti. Per
noi è fondamentale portare i nostri autori all’estero e vogliamo
continuare a espanderci. Ogni libro è un messaggio. Ogni libro è una
bellissima storia e io voglio che la conosca anche il resto del mondo.
In Libano affrontiamo così tante situazioni difficili e conserviamo
comunque un così grande entusiasmo! Abbiamo affrontato immigrazioni,
invasioni, guerre civili… Molti libanesi sono cristiani, molti sono
musulmani. 

Nel nostro paese coesistono diciotto comunità e,
anche se abbiamo avuto quindici anni di guerra, viviamo insieme ancora
oggi e ci rispettiamo reciprocamente.
Gli stessi problemi che
abbiamo affrontato noi ora riguardano tutto il mondo, ma il resto del
mondo non sa come gestirli. Noi sì. Anche se in passato ci siamo fatti
guerra e uccisi a vicenda, adesso sappiamo cosa vuol dire la tolleranza.
Sicuramente sappiamo cosa vuol dire essere invasi. Nel nostro paese ci
sono quattro milioni e mezzo di libanesi e allo stesso tempo un milione
di rifugiati siriani. Prima di loro c’erano i palestinesi, gli armeni,
gli iracheni. Insomma, buona parte dei libanesi sono rifugiati, e per
noi non è un grosso problema, perché sappiamo come gestire la
situazione. Per questo credo che abbiamo un grande messaggio da
comunicare e penso che sia molto importante farlo adesso.


L’articolo e l’intervista completa sono consultabili a questo link


[1] Kassir, S., Beirut. Storia di una città, Einaudi, Torino 2009, pp. 207-8.

[2] Op. cit., pp. 201-2.

FONTE: Editoriaraba